Imagoeconomica
Le cooperative sono l’asse portante della filiera lattiero-casearia italiana, con 17mila stalle, 540 imprese di trasformazione e 13mila lavoratori. Negli ultimi dieci anni, archiviata la lunga stagione delle quote latte, hanno cambiato pelle puntando sull’export di prodotti dop, dal parmigiano reggiano al grana padano al pecorino, e diventando più grandi, con processi di fusioni e di crescita. Due azioni che hanno portato ad un aumento del fatturato, dal 2013 e al 2022, del 52%. Ma per rimanere competitive hanno bisogno di investire in innovazione. Da qui la richiesta, lanciata dai tre principali gruppi, Fedagripesca Confcooperative, Legacoop Agroalimentare e Agci-Agrital, di politiche specifiche europee con l’attivazione di una Ocm, un’organizzazione comune di mercato. Una proposta che da Milano, nel corso del primo summit della cooperazione lattiero-casearia, hanno indirizzato al ministro Francesco Lollobrigida e ai parlamentari europei presenti in video-collegamento. In Italia sono 22 le Ocm attive che coprono quasi il 90% della produzione agricola, dall’ortofrutta al vino. Si tratta di uno dei cardini della Pac (la politica agricola comune) che prevede un sistema di finanziamenti e contributi a fondo perduto su progetti specifici, con l’obbligo per i beneficiari di contribuire con un altro 50%. Ocm specifiche sul latte sono state attivate in Slovacchia, Bulgaria e Lettonia.
«Non si tratta di ottenere ulteriori risorse - ha spiegato a nome dell’Alleanza cooperative il presidente del settore lattiero-caseario di Confcooperative Giovanni Guarneri - ma di razionalizzare l’allocazione delle risorse Pac in modo da attivare strumenti che consentano un approccio più mirato a migliorare la competitività». «Con l’istituzione di una Ocm anche per il settore latte - ha detto il presidente di Legacoop Agroalimentare Cristian Maretti - le imprese avranno la possibilità di fare investimenti strutturali per introdurre innovazioni che garantiscano anche una crescita del livello di sostenibilità della filiera». Un passo con cui, secondo il presidente di Agci-Agrital Giampaolo Buonfiglio «è possibile garantire quel livello di aggregazione indispensabile anche nell’ottica di un riequilibrio del potere contrattuale lungo la filiera, nonché per la tutela della zootecnia nelle aree interne e di montagna». Gli effetti saranno positivi dal punto di vista occupazionale e consentiranno anche alle aziende di piccole dimensioni di accedere ai fondi europei e di crescere. La proposta delle cooperative è sostenuta da due studi realizzati dall’università Cattolica del Sacro cuore e dalla Fondazione Crpa presentati ieri. «Segnerebbe il passaggio verso una nuova fase non più protezionistica ma di sviluppo in un contesto profondamente mutato rispetto al passato» ha sottolineato il professore Gabriele Canali. La cooperazione rappresenta il 65% del latte raccolto il Italia e il 70% della produzione dei principali formaggi dop. Nella classifica delle prime 20 imprese del settore sette, da Granarolo a Parmareggio a Soresina, sono cooperative. Le grandi realtà, frutto di fusioni e di una politica di promozione della “marca”, hanno fatto da traino all’export che con 1,2 miliardi rappresenta il 23% del totale nazionale. Essere soci di una cooperativa del resto significa vendere il proprio latte ad un prezzo maggiore, in media del 16% con picchi del 30% nelle aree montane. La previsione per l’anno prossimo è di un aumento del 5-10% del valore del latte (pari a 7 miliardi di euro nel 2024), a parità di produzione. A preoccupare è il contesto geo-politico mondiale in particolare la spada di Damocle dei dazi americani. «Li abbiamo già vissuti durante il Covid e tutto sommato non sono stati un trauma. Questa volta però siamo un po’ più preoccupati perché i prezzi da cui partiamo sono diversi e quindi la percentuale che potrebbero mettere andrebbe ad incidere maggiormente, con un impatto pericoloso per i nostri prodotti» ha spiegato il presidente di Caseifici Granterre Nisio Paganin.
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