mercoledì 12 luglio 2023
È presente in quasi tutti i Paesi, a eccezione dell’Italia, della Danimarca, dell’Austria, della Finlandia e della Svezia, ma con valori e applicazioni molto differenti
Dibattito sempre più acceso sul salario minimo

Dibattito sempre più acceso sul salario minimo - Archivio

COMMENTA E CONDIVIDI

Il tema del salario minimo è al centro del dibattito mediatico, con le opposizioni che “spingono” per la sua introduzione anche nel nostro Paese e con maggioranza, imprenditori e sindacati che invece insistono sulla contrattazione collettiva. Proprio mentre con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della legge di conversione del decreto n. 48/2023, le buste paga diventano più alte per circa 14 milioni di lavoratori. Scatta, infatti, il taglio di sei punti percentuali dell’aliquota contributiva a carico dei lavoratori subordinati che guadagnano fino a 35mila euro lordi annui per i periodi di paga da luglio a dicembre 2023. È di sette punti percentuali il taglio per chi guadagna fino a 25mila euro. «Grazie a questo intervento sosteniamo il potere di acquisto delle famiglie con il taglio del cuneo contributivo e rispondiamo, in maniera più inclusiva, con concretezza alle loro necessità. La legge si prefigge l’obiettivo di promuovere il lavoro, accompagnare le persone attraverso la formazione e sostenere le fragilità con interventi come il nuovo assegno di inclusione. Gli ultimi dati dell’Istat – che segnano un saldo positivo di 383mila occupati in più in un anno – confermano che siamo sulla strada giusta. Il nostro impegno è quello di continuare a lavorare per migliorare l’incrocio fra domanda e offerta di lavoro e la qualità del lavoro, a favore di una maggiore sicurezza e di retribuzioni migliori», spiega la ministra del Lavoro e delle Politiche Sociali Marina Calderone. Ma come funziona il salario minimo in alcuni Paesi europei e nel mondo? Secondo l’analisi dello Studio Legale Daverio&Florio, specializzato nel Diritto del Lavoro e nel Diritto della Previdenza Sociale, il salario minimo è presente in quasi tutti i Paesi europei, a eccezione dell’Italia, della Danimarca, dell’Austria, della Finlandia e della Svezia, ma con valori e applicazioni molto differenti. Considerando esclusivamente i Paesi analizzati, in Francia e in Spagna esiste già da tempo, rispettivamente dal 1950 e dal 1963, mentre i valori più alti si registrano in Lussemburgo (2.387,40 euro al mese) e in Germania (2.080 euro al mese). La Spagna e l’Olanda hanno aumentato l’importo nel 2023 e la Germania a fine 2022, mentre il Belgio e l’Irlanda hanno già previsto un aumento nei prossimi anni. Svezia e Danimarca, seguono modelli basati sulla negoziazione dei contratti collettivi e dei livelli salariali da parte dei sindacati. Entrando nell’analisi, in Germania, il salario minimo è stato introdotto nel 2015 e a fine 2022 è aumentato da 10,45 a 12 euro lordi all’ora, per un totale di 2.080 lordi mensili. Si applica a tutti i dipendenti, con alcune eccezioni, e un ulteriore aumento è in arrivo nel 2024. In Belgio, sin dal 1975 esiste il reddito minimo mensile medio garantito, che in seguito all'ultima indicizzazione del dicembre 2022 ammonta effettivamente a 1.954,99 euro lordi. È rivolto ai dipendenti con un contratto di lavoro dai 18 anni in su e che lavorano a tempo pieno. Anche qui il salario è spesso soggetto a riforme ed è previsto un aumento di 35 euro lordi (soggetto a indicizzazione) il 1° aprile del 2024 e del 2026. L’Olanda è uno dei Paesi “storici”, con il salario minimo che esiste dal 1969. Attualmente il salario minimo mensile ammonta a 1.934,40 euro lordi grazie al recente aumento del 10,15%. Il salario minimo si applica solo nel caso in cui un dipendente sia assunto con un contratto di lavoro ed è progressivo: dai 15 ai 21 anni aumenta in base all'età, diventando successivamente fisso. Dal 2024, inoltre, l’Olanda introdurrà un salario minimo orario (attualmente è mensile), al fine di renderlo ancora più equo. In Irlanda il salario minimo nazionale è stabilito dal National Minimum Wage Act 2000 (11,30 euro lordi all'ora e 1.909,70 euro lordi al mese), ma verrà sostituito con il salario di sussistenza a partire dal 2026. Per determinare la cifra, il governo irlandese sta adottando un approccio a soglia fissa del 60% del salario mediano, che si stima comporterà un aumento del reddito da 11,30 a 13,10 euro lordi all’ora. Attualmente hanno diritto al salario minimo i lavoratori a tempo pieno, a tempo parziale, temporanei, occasionali e stagionali di età superiore ai 20 anni. Ai dipendenti di età inferiore ai 20 anni si applicano aliquote salariali minime diverse. Il primo salario minimo in Spagna risale al 1963. Recentemente il salario minimo è aumentato dell'8% rispetto al 2022, frutto di un accordo tra il governo spagnolo e i due sindacati più rappresentativi a livello nazionale (Ccoo e Ugt). L’importo attuale è di 1.080 euro al mese lordi ed è determinato su base mensile o giornaliera (36 euro lordi al giorno), ma con valori inferiori per i lavoratori temporanei, stagionali e domestici. La Francia è senza dubbio uno dei primi Paesi ad aver introdotto il minimo salariale (attivo dal 1950), valido a tutti i dipendenti che hanno almeno 18 anni, indipendentemente dal contenuto e dalla forma del contratto di lavoro e della retribuzione. Il "salario minimo di crescita interprofessionale" è di 11,52 euro lordi all’ora, pari a 1.747,20 euro lordi mensili (per 35 ore) e si rivaluta in base all'aumento dei prezzi e all'aumento del salario medio. Spostandoci nei Paesi extra Ue, ma sul territorio europeo, nel Regno Unito dal 1998 esiste il National Minimum Wage Act, con un valore che viene deciso ogni anno dal governo sulla base delle raccomandazioni della Low Pay Commission, basandosi sull’andamento dell'economia, del costo della vita e degli stipendi. Il salario minimo è calcolato considerando una tariffa oraria e l'importo varia in base all'età. Attualmente va dalle 5,28 sterline (6,07 euro) lorde per i lavoratori sotto i 18 anni, 7,49 sterline (8,58 euro) da 18 a 20 anni, 10,18 sterline (11,66 euro) da 21 a 22 anni e 10,42 sterline (11,94 euro) da 23 anni e oltre. Per la Svizzera va fatto un discorso a parte. Secondo la legge federale svizzera, infatti, non esiste un salario minimo mensile nazionale. Tuttavia, ci sono cinque cantoni che hanno implementato i salari minimi: si va da circa 19,75 (20,31 euro) franchi lordi all’ora definiti dal Canton Ticino ai 24 franchi dal Cantone di Ginevra (24,45 euro). Inoltre, ci sono periodicamente iniziative cantonali per l'introduzione di un salario minimo, come avvenuto recentemente a Zurigo, dove il primo Consiglio comunale ha detto sì all'introduzione di un salario minimo di 23,90 franchi lordi (24,35 euro) all'ora. In contrasto, un’iniziativa nazionale per il salario minimo nazionale fu respinta nel 2014. E negli altri Paesi del mondo? In Messico la National Commission of Minimum Wages ha stabilito per il 2023 il salario minimo di 344,93 euro lordi, che arriva fino a 519,48 euro per i dipendenti che si trovano e lavorano negli Stati vicini al confine con gli Stati Uniti, considerando che il costo della vita in quelle zone è più alto che in qualsiasi altro Stato. In Australia il salario minimo nazionale viene rivisto ogni anno ed è attualmente di 21,38 dollari australiani all'ora (circa 13,17 euro) o 812,60 dollari australiani (circa 500,49 euro) a settimana lordi. Esistono inoltre tariffe minime nazionali speciali per i dipendenti giovani (di età inferiore ai 21 anni), per i dipendenti in formazione e per i dipendenti disabili. In Argentina, a causa dell'elevato tasso di inflazione nel Paese, viene stabilito un calendario di aumenti del salario minimo, almeno due volte l'anno, che prevede una tariffa mensile e una tariffa oraria. Per esempio, i dipendenti a tempo pieno per il mese di maggio 2023 hanno come valore mensile 84.512 pesos argentini (circa 338,56 euro). Per chi viene pagato al giorno, sono 422,56 pesos argentini (circa 1,69 euro) all’ora. Infine la Cina, dove non esiste uno standard salariale minimo unificato e i dipartimenti amministrativi competenti delle regioni amministrative provinciali possono stabilire gli standard salariali minimi corrispondenti in base alle condizioni economiche locali. Il salario minimo in Cina è generalmente suddiviso in due categorie: il salario minimo mensile e il salario minimo orario. Il salario minimo mensile si applica ai lavoratori dipendenti a tempo pieno, mentre il salario minimo orario si applica ai lavoratori dipendenti a tempo parziale. Ma per beneficiarne devono essere soddisfatte alcune condizioni, come avere almeno 16 anni e non essere in pensione, ma non solo.

Direttiva europea sulla parità salariale

La nuova direttiva sulla parità salariale e sulla trasparenza retributiva, approvata dal Parlamento Europeo il 30 marzo 2023, renderà obbligatoria per le aziende che cercano nuove risorse l’indicazione della Ral-Retribuzione annua lorda direttamente negli annunci di lavoro entro i prossimi tre anni. In Italia è sicuramente una pratica poco diffusa, ma anche nel resto dei Paesi europei non è un’usanza abituale. Reverse, azienda internazionale di Hr e Recruiting, ha infatti condotto un’indagine su un campione di 50 annunci di lavoro per ogni stato in cui lavora, Italia, Spagna, Francia e Germania. Gli annunci selezionati presentano tutti un livello di mid-seniority. Dalla ricerca è emerso che, almeno in questo caso, il “mito dell’estero” che sarebbe sempre un passo avanti rispetto al Belpaese non trova evidenza. Se, infatti, degli annunci presi a campione per l’Italia, solo il 4% riporta la retribuzione, la stessa percentuale la si ritrova in Spagna. Leggermente più virtuosa la Francia, che presenta la Ral esplicitata nel 6% degli annunci selezionati, mentre il fanalino di coda è rappresentato dalla Germania, in cui l’indicazione del salario non è presente in nessuno degli annunci analizzati. La nuova direttiva si basa sul fatto che le donne, a parità di ruolo, nell’Ue guadagnano in media il 13% in meno degli uomini, che, in termini pensionistici, si traduce in un divario di quasi il 30%. Questo divario è causato anche dal segreto retributivo, ossia dalla mancata dichiarazione della retribuzione all’interno degli annunci di lavoro che è sicuramente il punto introdotto dalla normativa di cui più si sta discutendo. Ma non è l’unico. La stessa normativa prevede anche il divieto per le aziende di chiedere ai candidati, in nessuna fase della selezione, la Ral precedente, evitando così che possa essere presa come benchmark di riferimento. Inoltre, chi si occupa di selezione e recruiting, dovrà fare in modo che sia le offerte sia i titoli professionali siano neutri sotto il profilo del genere e che le procedure di assunzione siano condotte in modo non discriminatorio. Sempre in ottica di trasparenza, le aziende saranno obbligate a mettere a disposizione dei lavoratori una descrizione dei criteri utilizzati per definire la retribuzione e l’avanzamento di carriera, oltre a fornire loro le informazioni sia sul proprio livello retributivo individuale, sia su quelli medi dei colleghi con mansioni e ruoli di pari valore, con l’obiettivo di far valere, se necessario, il diritto alla parità retributiva. Infine, le imprese con almeno 250 lavoratori dovranno rendere pubblici i dettagli relativi al divario retributivo tra uomini e donne, mentre alle organizzazioni e alle amministrazioni pubbliche di tutta Europa è richiesta una dichiarazione obbligatoria circa le proprie retribuzioni, e, qualora emergesse un divario superiore al 5%, sarà necessaria una rivalutazione salariale insieme ai rappresentanti dei dipendenti.

Salari e produttività in Italia

Secondo una ricerca del Centro studi di Confindustria, aumenti salariali al di sopra dei guadagni di produttività per periodi prolungati di tempo implicano necessariamente una perdita di competitività di costo (misurata da un innalzamento del Clup-Costo del lavoro per unità di prodotto) e/o un assottigliamento della redditività delle imprese e della remunerazione del capitale, con conseguente impatto negativo sulla dinamica degli investimenti e quindi sulla crescita nel lungo periodo. Queste considerazioni sono a maggior ragione valide per il settore manifatturiero, che è più esposto alla concorrenza internazionale e dove l’accumulazione di capitale è essenziale per la qualità dei prodotti e per la competitività. Tra il 2000 e il 2020 nel manifatturiero italiano i salari reali per ora lavorata sono cresciuti del 24,3%, pressoché in linea con la variazione cumulata della produttività del lavoro (22,6%). Guardando all’evoluzione anno per anno, si rilevano alcuni disallineamenti. In corrispondenza della frenata dell’attività dei primi anni Duemila e ancor più del crollo nel 2008-2009, la dinamica salariale, sostenuta dai meccanismi contrattuali e dall’attivazione degli ammortizzatori sociali, risulta aver avanzato a ritmi invariati, nonostante l’andamento pro-ciclico della produttività. Per contro, nella fase espansiva che ha seguito la crisi dei debiti sovrani, si sono registrati più ampi guadagni di produttività, al di sopra degli aumenti salariali. Il disallineamento aveva già iniziato ad assottigliarsi nel 2019 e si è definitivamente chiuso nel 2020. L’estensione erga omnes della cassa integrazione disposta dal Governo all’inizio dell’emergenza sanitaria, infatti, ha da un lato sorretto la produttività (le ore lavorate si sono ridotte quasi all’unisono con i livelli di attività) ma ha anche, insieme ai sostegni alle imprese, salvaguardato occupazione e salari. Il biennio 2021-2022 è stato fortemente segnato dai rialzi dell’inflazione innescati dapprima da strozzature di offerta conseguenti alla crisi Covid e poi dalla crisi energetica. L’aumento dei prezzi ha eroso i salari reali, mentre la produttività ha sostanzialmente tenuto. Nei prossimi anni i salari sono previsti recuperare potere di acquisto, in virtù di un meccanismo contrattuale (concordato tra le parti sociali nel 2009 e riaffermato da ultimo con il Patto della Fabbrica del 2018) che spalma su più anni gli effetti di fiammate inflazionistiche, come quelle osservate da fine 2021. Rimarrà cruciale che gli aumenti salariali a copertura dell’inflazione siano accompagnati da guadagni di produttività sufficienti ad evitare un’erosione della redditività di impresa, a danno della propensione ad investire, o un innalzamento del Clup, che andrebbe ad alimentare le pressioni inflazionistiche. La crescita dei salari reali nel settore manifatturiero italiano tra il 2000 e il 2020 è stata pressoché in linea con quella registrata in Francia (+25,3%) e superiore a quella della Germania (+18,1%) e della Spagna (14,4%). In tutti i principali paesi competitor, tuttavia, la produttività del lavoro è cresciuta ben più che in Italia, due volte tanto in Germania (+40,2%). Guadagni di produttività così limitati rispetto ad altri paesi hanno comportato una netta perdita di competitività per il nostro manifatturiero. L’Italia tra il 2000 e il 2020 ha perso rispetto alla Germania 26,4 punti di competitività misurata in termini di Clup, 26,8 rispetto alla media dell’Eurozona. Un altro corollario della debole dinamica comparata della produttività, a fronte di guadagni salariali in linea o talvolta più ampi che altrove, è l’erosione della cosiddetta “quota profitti” o “quota capitale”, ovvero la quota di valore aggiunto che va a remunerazione del capitale, misurata dal rapporto tra Mol-Margine operativo lordo e valore aggiunto. Tale rapporto nel manifatturiero italiano partiva nel 2000 sopra quello medio nell’Eurozona (38,3% contro 34,7%), ma dal 2004 è stabilmente sotto, con un divario pari a 3,6 punti nel 2020 (34,8% contro 38,4%). Nel biennio 2021-2022 la distanza tra redditività nel manifatturiero italiano e nella media dell’Eurozona si è ampliata. I margini di profitto nel manifatturiero di altri paesi dell’Area Euro sono infatti cresciuti non solo nel 2021 ma anche nel 2022, mentre in Italia hanno registrato una contrazione nel 2022, misurata sia in termini di quota profitti (-3,4 punti il rapporto tra Mol e valore aggiunto), sia in termini reali (-9,2% il Mol reale) sia in termini unitari (-3,7 punti il Mol in rapporto al valore aggiunto reale). Il calo della quota capitale nel manifatturiero italiano non è né spiegato dalla diminuzione dell’intensità del capitale, né si è tradotto in una riduzione del tasso di investimento. Al contrario, il rapporto tra capitale e lavoro ha continuato ad alzarsi e gli investimenti fissi lordi in percentuale al valore aggiunto si sono espansi, a ritmo più accentuato dopo la doppia recessione. Tali andamenti implicano un calo del rendimento del capitale perfino più intenso di quello suggerito dalla dinamica della quota profitti, e ciò non può che agire da freno a investimenti innovativi, su ampia scala e per natura rischiosi, che invece sono la chiave per guadagni di produttività più estesi e duraturi. Da questo quadro emerge l’impressione che l’industria italiana si trovi incagliata in un circolo vizioso dove la mancata crescita della produttività è al tempo stesso causa ed effetto della perdita di competitività. È urgente spezzare questo circolo vizioso, a maggior ragione ora che il rialzo dei tassi di interesse aggiunge un ulteriore freno agli investimenti. Servirebbe un alleggerimento del carico fiscale (su lavoro e capitale), funzionale nel breve periodo a far recuperare potere di acquisto ai salari e ad alleviare la compressione dei profitti. Allungando l’orizzonte sono cruciali politiche a sostegno dell’innovazione delle imprese e di rafforzamento della capacità innovativa dell’intero sistema economico. Per questo la partita del Pnrr non può essere persa.

Il 44% degli italiani chiede stipendi più alti

Buste paga più leggere in 22 province su 107 tra il 2019 e il 2021. In queste aree un lavoratore dipendente ha perso in media nel triennio 312 euro, a fronte di una crescita nazionale di circa 301 euro. Sensibili sono le differenze a livello territoriale. Salari più magri di oltre mille euro a testa si registrano a Venezia, Firenze e Prato. Mentre crescite al top si rilevano a Milano (+1.908 euro), Parma (+1.425) e Savona (+1.282). Sotto la Madonnina i dipendenti sono anche i meglio pagati d’Italia, con uno stipendio medio di 30.464 euro nel 2021, due volte e mezzo la media nazionale di 12.473 euro e nove volte più alto di quello di Rieti fanalino di coda nella classifica retributiva. Ma, va detto, che nel capoluogo lombardo il reddito da lavoro dipendente rappresenta oltre il 90% del reddito disponibile contro il 23,9% di Rieti e il 63,1% della media nazionale. È quanto emerge dalle elaborazioni provinciali realizzate dal Centro Studi Tagliacarne sulle voci che compongono il reddito disponibile a prezzi correnti. «L'analisi dimostra che la geografia delle retribuzioni è diversificata territorialmente, e sotto vari aspetti non rispetta la tradizionale dicotomia Nord-Sud». È quanto ha sottolineato Gaetano Fausto Esposito, direttore generale del Centro Studi Tagliacarne, che aggiunge: «Infatti se confrontiamo la graduatoria del Pil pro capite (che misura la produzione della ricchezza) con quella delle retribuzioni, vediamo che nel primo caso praticamente tutte le ultime 30 posizioni sono appannaggio di province meridionali (con la sola eccezione di Rieti), mentre in quella delle retribuzioni pro-capite troviamo ben dieci province del Centro-Nord, il che induce a riflettere sulle politiche dei redditi a livello locale». Ma se Milano è la prima provincia italiana per valore pro capite dei salari, Savona (+14,3%), Oristano (+11,8%) e Sud Sardegna (+11,2%) presentano i maggiori incrementi delle retribuzioni. Tra 2019 e 2021, il peso in termini pro capite del reddito da lavoro dipendente sul totale del reddito disponibile è rimasto stabile intorno al 63%. Ma in 42 province su 107, delle quali solo sei sono del Mezzogiorno, è aumentato passando dal 68,7% nel 2019 al 69,7% nel 2021. Nel complesso, l’incidenza delle retribuzioni sulle entrate disponibili si rileva più marcata nelle città metropolitane (71,3%) meno nelle province (57,6%). Ai due estremi di questa forbice, come abbiamo visto, si trovano Rieti con il 23,9% e Milano con il 90,7%. Tanto che, se stilassimo una classifica del reddito disponibile al netto del reddito da lavoro dipendente, il capoluogo lombardo precipiterebbe all’ultimo posto in classifica con appena 3.131 euro a testa. Proprio per questo, secondo il rapporto People at work 2023: a global workforce view dell'Adp Research Institute, circa la metà dei lavoratori italiani (44,3%) prevede di ottenere un aumento di stipendio nei prossimi 12 mesi, con un incremento medio pari al 6%. Questo nonostante lo scorso anno in Italia il 44% dei dipendenti abbia ottenuto un incremento medio dello stipendio pari al 5,5%. Gli uomini affermano che la loro retribuzione è aumentata del 5,8% lo scorso anno, rispetto al 5,2% delle donne. Hanno ottenuto un aumento il 50% degli uomini e il 36% delle donne. Tuttavia, le aspettative per l’anno in corso traggono giustificazione dai dati Istat, secondo cui nel 2022 i prezzi al consumo sono cresciuti dell’8,1%, implicando quindi una riduzione dei salari reali. A ciò si aggiunge il fatto che, secondo il 44% dei lavoratori italiani, le aziende non hanno adottato nessuna iniziativa a sostegno dei dipendenti, per consentirgli di affrontare il complesso periodo economico. Il report, condotto su oltre 32 lavoratori in 17 Paesi, circa 2000 in Italia, analizza la percezione che i dipendenti hanno dell'attuale mondo del lavoro e di ciò che si aspettano e sperano di ottenere dal proprio datore di lavoro in futuro. Oltre a un aumento di stipendio, il 28% dei lavoratori italiani prevede di ottenere un bonus e il 19% una promozione. In termini di aspettative, non ci sono forti differenze tra uomini e donne, mentre maggiore divario si ha se guardiamo alle priorità, dove lo stipendio occupa la prima posizione: come riporta lo studio, il 53% dei lavoratori italiani afferma che la retribuzione è il fattore più importante in ambito lavorativo, di questi il 48% è uomo e ben il 58% è donna. Un dato che potrebbe essere correlato sia al tasso di insoddisfazione (54%) concernente il salario ricevuto, dove troviamo un maggiore scontento tra le donne (56%) rispetto agli uomini (52%), sia al percepito sull’adeguatezza del proprio stipendio rispetto al lavoro svolto: il 45,6% degli italiani pensa di essere pagato meno di quanto meriterebbe, di questi il 43% è uomo e il 48% è donna. Nel mondo, più di otto lavoratori su dieci (83%) prevedono di ottenere un aumento di stipendio nei prossimi 12 mesi, sia dal loro attuale datore di lavoro sia cambiando lavoro. In media, si aspettano un aumento dell'8,3%. Tuttavia, poco più di un terzo dei lavoratori (34%) si aspetta un aumento di stipendio del 10% o più e uno su dieci (10%) si aspetta più del 15%. Tra i vari settori, i lavoratori dei settori servizi professionali e It/telecomunicazioni si aspettano gli aumenti di stipendio più elevati per il prossimo anno (in media dell'8,7%), mentre il personale del settore ricreativo e dell'ospitalità prevede quelli più bassi (in media del 7,6%). I risultati si inseriscono nel contesto dell’attuale crisi del costo della vita, in cui i lavoratori di molti Paesi dimostrano la volontà di intraprendere azioni sindacali per spingere i datori di lavoro a essere più generosi in materia di retribuzione e condizioni. Più di quattro lavoratori su 10 (44%) ritengono, infatti, di essere sottopagati per il loro lavoro.









© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: