Il compromesso che in Europa consentirà ai motori termici di convivere con quelli elettrici anche dopo il 2035 solo se alimentati con carburanti sintetici, è stato accolto come una mezza vittoria di tutti. Quindi, alla fine, quasi di nessuno. Gli ambientalisti hanno visto riconoscere lo stop - sostanziale ma non totale - ai propulsori tradizionali, ma anche chi spingeva invece per ottenere che non fossero ammessi solo quelli 100% a batteria, qualcosa hanno ottenuto. Chi indubbiamente ha vinto invece è la Germania. Nulla di sorprendente se si considera che si tratta del Paese che in assoluto produce più automobili nell’Unione. E che è primo protagonista nel mercato di quegli e-fuels che è riuscito a far ammettere dall’(ex) intransigente Commisione Europea che del “solo elettrico senza se e senza ma” aveva fatto la sua bandiera prima di piegarsi agli interessi tedeschi. Ma in fondo anche ai propri, perché senza cedere qualcosa, lo stop ai motori diesel e benzina non sarebbe passato mai.
La nota stonata semmai è constatare come proprio la Germania, rea confessa del Dieselgate attraverso la falsificazione delle emissioni perpetrata da Volkswagen e scoperta nel settembre del 2015, continui oggi impunemente a dettar legge in materia di automobili. E a imporsi con voltafaccia clamorosi, come quello ordito ai danni dell’Italia con la quale si era alleata per ottenere che anche i biocarburanti fossero ammessi per “addolcire” la portata economica e sociale di una rivoluzione doverosa per l’ambiente ma molto onerosa per i consumatori.
Al netto delle considerazioni scientifiche sulla maggior sostenibilità ambientale di questo o di quel carburante alternativo che dividono gli stessi esperti, mettono uno contro l’altro l’esito degli studi e diventano pietanze succulente per le chiacchiere da bar, quello che pare evidente è che ammettere soltanto gli e-fuels significa rendere incompleta la cosiddetta “neutralità tecnologica”, cioè il principio per cui conta il raggiungimento del risultato – nella fattispecie l’abbattimento della CO2 – e non con quale sistema lo si ottenga. Per l’Europa insomma, a quanto pare, è più importante il mezzo che il risultato stesso. Intendiamoci, la transizione all’elettrico è un processo irreversibile. Troppo importante la necessità di frenare i cambiamenti climatici, troppi gli interessi economici in gioco, troppo forte la spinta da parte degli stessi costruttori, anche se le loro posizioni sono più sfumate riguardo ai tempi dell’inizio della transizione.
Perché alla fine di questo si dovrebbe parlare: di tempi e di metodi. E magari ricordare che la mobilità climalterante da correggere nei trasporti dovrebbe comprendere anche quella di navi e aerei, misteriosamente esclusi da ogni veto e discussione. Restando nell’orticello di casa nostra, prima di pensare al traguardo del 2035 e alle relative decisioni europee (che secondo un sondaggio di “Quattroruote” la stragrande maggioranza degli italiani non conosce affatto) occorrerebbe riconoscere che la cosa più urgente da fare è togliere dalle strade 12 milioni di auto vecchie e “inquinanti”: sul piano ambientale, farebbe di più sostituire una Euro 1, 2 o 3 con una Euro 6d, che cambiare quest’ultima con una elettrica. Ci sarà tempo e modo poi di pensare ai carburanti alternativi, i volumi produttivi dei quali sono ancora bassi, e che necessiteranno di investimenti più che proporzionali all’incremento della produzione per diventare fruibili. Qualche coraggioso allora dovrà spiegare che alla fine i costi inevitabilmente saranno scaricati sull’utente finale. E che per questo servirà combinare le soluzioni più efficienti, per far costare questa trasformazione il meno possibile. Tutto il resto, purtroppo, è fumo.