La firma del contratto dei metalmeccanici segna una svolta e indica la strada di un cambiamento condiviso. Non era e non è stato scontato arrivare a una conclusione positiva e unitaria. Non solo per le posizioni di partenza delle parti, sideralmente lontane: gli industriali, sulla base della deflazione, rivendicavano la restituzione di aumenti concessi nella precedente tornata ed erano intenzionati a ridurre a zero lo scambio salariale a livello nazionale; per contro i sindacati non erano disponibili a trasferire la contrattazione degli aumenti al solo livello aziendale legato agli incrementi di produttività. Ma soprattutto perché le condizioni esterne e interne alle fabbriche lasciavano assai pochi margini, con la lunga crisi economica che ha falcidiato 300mila posti di lavoro e bruciato quasi il 30% della capacità produttiva impiantata, proprio mentre bussa alle porte dei capannoni l’avanguardia della quarta rivoluzione industriale, con robot e internet delle cose capaci di ridisegnare completamente le modalità produttive.
A sbloccare uno sterile braccio di ferro è stato il prevalere, dall’una e dall’altra parte, di una diversa consapevolezza. Anzitutto quella che la trasformazione si ottiene non semplicemente cancellando quel che c’era ma facendo evolvere gli strumenti utilizzati, mettendo in campo nuove tutele per nuovi bisogni, abbandonando le rigidità ideologiche per sperimentare gli adattamenti più funzionali alla crescita complessiva e strettamente connessa di imprese e lavoratori. Nel caso dei metalmeccanici questo si è tradotto anzitutto in un peso maggiore ai contratti aziendali rispetto al livello nazionale, che pure non esaurisce del tutto la sua funzione anche di garanzia del potere d’acquisto dei dipendenti. Poi nel creare una rete di welfare aziendale che arricchisce le tutele del lavoratore più ancora dei soldi in busta paga. Ma soprattutto nell’aver individuato nella formazione – come diritto del dipendente – la vera chiave di protezione e promozione del lavoratore in un mercato del lavoro in eccezionale evoluzione.
Gli 85 euro di aumento complessivo non sono davvero pochi nella congiuntura attuale, ma l’investimento in formazione rappresenta il risultato decisamente più importante e innovativo che i lavoratori incassano per il loro stesso futuro.
Tra le sigle della rappresentanza c’è chi a questo risultato ha lavorato da subito - come la Fim-Cisl - e coloro che, come la Fiom-Cgil e la stessa Federmeccanica, hanno faticato di più ad abbandonare le pregiudiziali e a trovare la strada dell’intesa.
Ma che, dopo decenni di accordi separati, sul contratto ritorni la firma di tutti i soggetti è un risultato felice che riapre la strada a un cambiamento condiviso più generale. Dopo l’intesa con artigiani e commercianti, ai primi di dicembre anche la Confindustria dovrebbe infatti siglare l’accordo con Cgil, Cisl e Uil per la riforma della contrattazione. Non deve però restare solo sulla carta, come accaduto per le intese sulla rappresentanza, ma diventare strumento per affrontare la sfida del grande cambiamento mirando a uno sviluppo sostenibile, all’inclusione e alla partecipazione dei lavoratori. Per un futuro di lavoro – libero, degno, creativo - e non di lavoretti.