Giuseppe Di Taranto
Quando doveva chiudere una questione anche spigolosa e importante Giuseppe Di Taranto non perdeva mai le staffe, si girava di tre quarti, sfoderava il suo sorriso ironico e gentile, e calcava sull’accento napoletano. La sua sentenza usciva quasi sussurrata ed era difficile da controbattere, calzante e affilata. Così faceva spesso per l’Europa, oggetto delle sue battaglie negli ultimi anni, dei suoi articoli e delle sue frequenti apparizioni televisive. La storia della nascita del celebre tetto del 3 per cento di deficit in rapporto al Pil stabilito a Maastricht era uno dei suoi aneddoti preferiti. Raccontava che il parametro era stato inventato su due piedi da un funzionario del ministero delle Finanze francese. «Avevamo necessità di qualcosa di semplice, 3 era un buon numero!», aveva confessato il funzionario di Mitterrand Guy Abeille dando così ulteriori elementi a Romano Prodi per definire «stupido» il Patto di stabilità e crescita e a Giuseppe Di Taranto uno dei tanti elementi di divertente e appassionata polemica.
Di Taranto, scomparso mercoledì scorso a 77 anni non ancora compiuti, dopo una rapida e improvvisa malattia, era economista, storico dell’economia e del pensiero economico. La Luiss, dove era ordinario e le sue lezioni erano stracolme, era la sua casa scientifica e anche la sua passione: soprattutto negli ultimi anni dalla sua cattedra e nei suoi interventi alimentava la polemica contro il "Washington consensus", la globalizzazione non governata e l’Europa dell’austerità. I suoi ultimi libri, come “L’Europa tradita” o “La globalizzazione diacronica”, piacevano agli studenti che facevano la fila per fare tesi di laurea sullo spread, il governo Monti, la crisi della Grecia e i meccanismi di funzionamento dell’Unione Europea.
Riformista, cattolico e di antiche passioni socialiste e liberali, Di Taranto era un progressista ed europeista più di tanti altri. La sua polemica sul Patto di stabilità non era contro l’Europa ma contro l’Europa dalla faccia feroce. La sua polemica non era contro la globalizzazione, ma contro la globalizzazione selvaggia. Da vecchio keynesiano di scuola partenopea non sopportava giustamente il Washington consensus, la strategia di rigore dell’Fmi: con gli anni ha avuto ragione perché anche il Fondo è molto cambiato. Per questo si fermava spesso a conversare con il compianto Jean Paul Fitoussi, suo amico e suo dirimpettaio alla Luiss, e ammirava Giorgio La Malfa: per l’Europa ma contro il rigore. Tra i suoi amici Antonio Fazio, già governatore della Banca d’Italia e tanti altri economisti, posizionati anche nell’area del centro destra, dove trovava sponde culturali ed elementi di confronto. Quando gli toccò di fare una antologia di scritti sulla crisi per la Luiss University Press scelse tuttavia, tra gli altri, tre brani di tre nomi indiscutibili: Amartya Sen, Paolo Sylos Labini, Joseph Stiglitz. Ci mancheranno le sue battaglie, i suoi interventi sulla stampa e le sue assidue apparizioni televisive dove, con precisione e cifre alla mano, componeva la storia economica dei nostri giorni.