Un tecnico di laboratorio si prepara a raccogliere un campione di sangue di un paziente che potrebbe essere stato infettato dal virus Ebola (Kabala, Sierra Leone; foto di Martine Perret per Unmeer, dicembre 2014)
Con il suo ultimo esperimento nel campo della finanza positiva la Banca Mondiale ha spostato dai Paesi poveri ai mercati finanziari il rischio economico della gestione delle pandemie. L’esperimento si chiama “pandemic bond” e ha debuttato mercoledì scorso. Il pandemic bond è un’obbligazione con cui il braccio finanziario delle Nazioni Unite raccoglie fondi per affrontare i costi della gestione di una pandemia in una nazione a basso reddito. Il denaro raccolto è affidato al Pef, il Pandemic Emergeny Financing Facility, lo strumento creato lo scorso anno dalla Banca Mondiale con il supporto di Germania e Giappone come veicolo rapido per aiutare i Paesi a contrastare la diffusione di malattie infettive che possono scatenare epidemie e espandersi anche oltre i confini nazionali rientrando tecnicamente nella categoria delle pandemie.
Gli investitori che comprano questo tipo di obbligazione, con scadenza a cinque anni, stanno mettendo a disposizione il denaro che potrebbe servire a gestire l’emergenza. Il bond è uno strumento finanziario rischioso: se il Pef è chiamato a intervenire a supporto di un Paese, le spese sono defalcate dall’ammontare da restituire a chi ha comprato il “pandemic bond”. Ma non è beneficenza e infatti il rischio è ben pagato: chi ha comprato il bond di classe A, che copre le spese per contrastare pandemie influenzali e da coronavirus (come la Sars), ottiene un tasso pari al Libor in dollari a sei mesi (che oggi è all’1,44%) più 6,5 punti percentuali, chi ha comprato l’obbligazione di classe B, più rischiosa perché include anche i filovirus (come l’Ebola), la febbre di Lassa, la febbre emorragica Congo-Crimea e la febbre della Valle del Rift incassa ogni anno il Libor in dollari a sei mesi più ben 11,1 punti percentuali di rendimento. A determinare se il rischio di contagio è a livelli tali da rendere necessario l’intervento del Pef sono una serie di criteri basati sulle rilevazione dell’Organizzazione mondiale per la sanità: si va dal numero dei morti alla velocità di diffusione della malattia.
I primi due pandemic bond hanno avuto successo, la domanda è stato il doppio dell’offerta e il Pef ha potuto raccogliere 320 milioni di dollari a cui si aggiungono 105 milioni raccolti con il collocamento di altri prodotti derivati sempre finalizzati alle spese per gestire le pandemie. A comprare sono stati soprattutto fondi specializzati nelle cosiddette “obbligazioni catastrofali” ma anche società di investimento tradizionali e fondi pensione. Circa tre quarti delle obbligazioni sono state comprate in Europa anche perché sono europee le compagnie che hanno aiutato la Banca Mondiale a organizzare l’operazione: Swiss Re Capital Markets e Munich Re.
«Con questo nuovo strumento abbiamo fatto un importantissimo passo avanti che ha il potenziale di salvare milioni di vite e intere economie da uno dei più grandi rischi sistemici che abbiamo davanti» ha detto un entusiasta Jim Yong Kim, presidente della Banca Mondiale, che ha raccontato come l’idea per questa forma di finanziamento sia stata ispirata dall’emergenza per il virus Ebola nell’Africa occidentale, che nel 2014 ha ucciso 11mila persone tra Guinea, Liberia e Sierra Leona.
Per la finanza positiva è un altra innovazione significativa targata Banca Mondiale. L’istituzione dell’Onu già dal 2014 in avanti ha piazzato 1,6 miliardi di dollari di obbligazioni catastrofali per gestire i disastri naturali, mentre è stata all’avanguardia nell’introdurre i “green bond” per le energie rinnovabili (strumento ormai consolidato che ha visto anche le prime emissioni di aziende italiane, quest’anno) e quest’anno, a marzo, ha collocato anche la prima obbligazione legata agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu, 163 milioni di euro riservati agli investitori istituzionali italiani e francesi.