Cosa possiamo fare, noi? Ce lo domandiamo di fronte a tragedie che accadono dall’altra parte del mondo, come quella del Rana Plaza. È il palazzo che cinque anni fa – 24 aprile del 2013 – a Dacca, in Bangladesh, crollò portandosi via le vite di oltre un migliaio di persone. La più grande tragedia del lavoro nella storia del manifatturiero.
Le vittime lavoravano nelle fabbriche tessili ospitate nel palazzo, in condizioni di sicurezza e per salari lontanissimi dai nostri standard. Erano l’ultimo anello nella catena di fornitura che all’altro estremo vedeva marchi internazionali importanti della moda e abbigliamento, anche italiani.
È riflettendo su questo, allo- ra, che possiamo trovare una risposta alla domanda iniziale. Perché se vogliamo fare qualcosa affinché tali tragedie accadano il meno frequente possibile (non è stata purtroppo l’ultima), ogni volta che acquistiamo un capo d’abbigliamento, ma vale per qualsiasi prodotto, dobbiamo chiederci: come e da chi è stato prodotto? In quali condizioni di sicurezza, di dignità di salario e rispetto dei diritti, di tutela dell’ambiente?
È una domanda scomoda ma è proprio quella che ha chiesto di porsi anche quest’anno la Fashion Revolution week (23-29 aprile), la settimana di iniziative che in tutto il mondo ha ricordato l’anniversario del Rana Plaza. Per fare il punto su quanto è stato fatto, su quel che resta da fare e sui soggetti che vanno coinvolti per, appunto, rivoluzionare il settore della moda nel senso della sostenibilità.
I primi sono gli attori del tessile e abbigliamento, produttori, distributori e grandi brand. Oltre 220 aziende del settore avevano firmato l’Accordo per la prevenzione degli incendi e sulla sicurezza degli edifici in Bangladesh, istituito nel maggio 2013, che ha conseguito risultati significativi (vedere box in pagina). Ora, come rende noto la Campagna Abiti puliti (sezione italiana della Clean clothes campaign internazionale), si chiede a quei marchi, ma in generale a tutti i marchi che si riferiscono al Bangladesh, di sottoscrivere l’Accordo di Transizione 2018, che amplia ed estende il precedente fino a maggio 2021.
Poi i consumatori. Che sono chiamati a sviluppare consapevolezza prima di tutto del fatto che 'acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico', come scrive Papa Francesco nella Laudato si’ richiamando la Caritas in veritate di Benedetto XVI. E poi del potere di cui dispongono, specie se si muovono insieme, col 'voto col portafoglio', cioè indirizzando gli acquisti verso prodotti e aziende che danno più garanzie, e informazioni, quanto a sostenibilità sociale e ambientale.
La Fashion Revolution week ha invitato ad esempio i consumatori a indossare capi d’abbigliamento a rovescio, per mostrarne l’etichetta, a fotografarli e postarli sui social network con gli hashtag #WhoMadeMyClothes #FashRev per sollecitare i brand a dare informazioni e risposte. Infine gli investitori. Specie quelli, e sono sempre di più, che abbracciano criteri di sostenibilità sociale e ambientale e che sanno muoversi, anche qui, insieme. Nel 2013, 250 investitori istituzionali coordinati da Iccr (Interfaith Center on Corporate Responsibility) costituirono la Bangladesh Investor Initiative, sollecitando le imprese che si rifornivano in Bangladesh su aspetti quali la trasparenza delle catene di fornitura, i salari dignitosi, l’accesso ai risarcimenti per i familiari delle vittime.
Ora premono anch’essi per la firma del nuovo Accordo. E lo fanno con la forza dei 4.500 miliardi di dollari cui ammontano complessivamente i loro asset: un portafoglio che, quando 'vota', può fare la differenza.