È la seconda sforbiciata alle stime di crescita dell’Italia nel giro di 72 ore. E in entrambi i casi si tratta di istituzioni economiche pubbliche. Per cui non siamo di fronte a pareri di agenzie di rating, che magari potrebbero essere tacciate di faziosità. Dopo l’aggiustamento verso il basso del Pil italiano per il 2019 comunicato venerdì dalla Banca d’Italia, ieri è stato il turno del 'taglio' del Fondo monetario internazionale. Se è vero che due indizi fanno una prova, la revisione all’ingiù della crescita per Roma adesso diventa qualcosa di più di una previsione. I giudizi, tra l’altro, coincidono. Sia l’istituto di via Nazionale che quello di Washington prevedono un +0,6% per l’anno appena iniziato, ovvero un’andatura ben distante dalle valutazioni precedenti e, soprattutto, lontanissima dall’1% indicato dal governo.
Ai piani alti dell’esecutivo gialloverde la reazione ai nuovi calcoli dei tecnici statunitensi è stizzita: si va al contrattacco senza entrare nel merito delle ragioni alla base della retromarcia sul Pil. Nell’aggiornamento del 'World economic outlook', invece, il Fmi giustifica ampiamente le ragioni che hanno portato ad abbassare l’asticella, a partire dalla «debole domanda domestica » e dai «maggiori costi di finanziamento dovuti ai rendimenti elevati sui titoli di Stato». Ma dal Fondo arriva anche un avvertimento. Insieme al possibile inasprirsi delle tensioni commerciali, a un mancato accordo sulla Brexit e a un rallentamento superiore alle previsioni della Cina, anche «il costoso intreccio tra rischi sovrani e rischi finanziari in Italia rimane una minaccia » per l’economia globale, dice il direttore della Ricerca, Gita Gopinath. «Le preoccupazioni per l’andamento dei titoli di Stato e i rischi finanziari hanno pesato sulla domanda domestica », si aggiunge. In particolare, si legge nel rapporto, «gli spread italiani si sono ristretti rispetto ai picchi di ottobre- novembre ma rimangono alti». «Un protratto periodo di rendimenti elevati», avvertono ancora da Washington, «metterebbe ulteriormente sotto stress le banche italiane, peserebbe sull’attività economica e peggiorerebbe le dinamiche del debito». Questi eventi e scenari negativi non vengono minimamente presi in considerazione dai massimi rappresentanti del governo. Il primo a rispondere a muso duro è Matteo Salvini. «Italia minaccia e rischio per l’economia globale? – si chiede il vicepremier leghista –. Piuttosto è l’Fmi che è una minaccia per l’economia mondiale, una storia di ricette economiche coronata da previsioni errate, pochi successi e molti disastri».
A replicare senza entrare in una disputa sui numeri è anche Luigi Di Maio. «Non arretriamo di fronte a chi addirittura definisce l’Italia una delle cause della recessione economica – afferma il vicepremier pentastellato –. Non lo possiamo accettare. Se pensano che con qualche dato possano scoraggiarci si sbagliano: indietro non si torna», aggiunge. Se Salvini e Di Maio hanno reagito con affondi politici ai tagli del Fmi, Giovanni Tria si preoccupa di rassicurare sulla tenuta del Paese. «Non credo che l’Italia sia un rischio né per l’Ue né globale», ha sostenuto il ministro dell’Economia a margine dell’Eurogruppo, aggiungendo che in realtà il rischio viene dalle «politiche consigliate dal Fmi». Un’indicazione se sono più attendibili le revisioni delle istituzioni economiche o le rassicurazioni del governo italiano arriverà a breve. Considerando che il 30 novembre l’Istat ha certificato, per il terzo trimestre 2018, un arretramento del Pil dello 0,1% (primo calo dopo 14 trimestri), se il 31 gennaio lo stesso istituto di statistica dirà che anche negli ultimi tre mesi dell’anno scorso il Pil è negativo ci troveremmo ufficialmente in «recessione tecnica». A quel punto una crescita dell’1% nel 2019 sarebbe un’utopia.