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«Per rimanere fedeli bisogna uscire. San Vincenzo di Lerins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo, tra l’uomo che cresce e la Tradizione che, nel trasmettere da un’epoca all’altra il depositum fidei, cresce e si consolida con il passo del tempo». Era il 13 maggio 2007 ad Aparecida, in Brasile, dove eravamo arrivati con il volo papale di Benedetto XVI nel giorno dell’inaugurazione della quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano. Sotto i portici del grande santuario mariano incontrai Bergoglio, allora arcivescovo di Buenos Aires, che avevo conosciuto cinque anni prima a Roma.
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Gli chiesi del suo incontro con il Papa e delle prospettive di quell’assise. Mi disse ciò che è il cuore e l’apertura della missione nel solco della Tradizione e del Concilio attraverso l’Evangelii nuntiandi e la Populorum progressio di Paolo VI e che ne avremmo riparlato quando sarebbe venuto a Roma. Venne, come promesso, nell’ottobre di quell’anno per il Concistoro, al quale però non poté partecipare a causa di una dolorosa sciatica. E quello che mi disse divenne un’intervista che è ancora tutta in piedi, anche se allora era allergico alle interviste, ma queste cose andavano certamente dette a tutti. Mi parlò del coraggio apostolico, della misericordia, del pericolo dell’autoreferenzialità e della mondanità spirituale nella Chiesa.
In sostanza, quello che poi confluì nella sua esortazione programmatica del pontificato Evangelii gaudium, che sono diventati pilastri del suo magistero e che è ancora attuale. È interessante notare che queste stesse priorità le ripeté anche nelle Congregazioni generali del pre-Conclave che lo portò al Soglio di Pietro, ma le aveva già dette ai cardinali del pre-Conclave del 2005, in una paginetta di cui tengo copia. Ricordo ancora quando, come paradigma della missione, mi parlò del profeta Giona. Una memoria che riaffiorò più tardi, il 7 marzo 2021, nella Piana di Ninive in Iraq, terra di Abramo e del profeta Giona, quando nel suo viaggio apostolico papa Francesco entrò nella cattedrale di Al-Tahira, crivellata di pallottole, attorniato dalla folla che agitava palme cantando in aramaico, lingua madre del cristianesimo siriaco, quella parlata da Gesù. «Santità, la accogliamo oggi come i niniviti accolsero “Giona, il predicatore della verità”, secondo la nostra tradizione siriaca», gli disse il patriarca siro-cattolico presentando la comunità cristiana di Qaraqosh, dove il cristianesimo risale al tempo degli Apostoli. In quella tappa, sull’orlo di un tempo tragico, che sembrava scaturire da una visione spirituale, in un viaggio emblematico e profetico nella cerniera del Medio Oriente, culla dell’umanità e delle fedi, devastato dalle guerre, Francesco si era così portato anche nei luoghi emblematici dell’apertura alla missione. E portandosi alle origini dell’opera di Dio, alla nascita delle nostre religioni, da quel luogo sorgivo di fede e fratellanza, dalla terra del nostro padre Abramo, dove si è accanita l’opera diabolica dell’odio e della divisione, ancora una volta aveva fatto non solo comprendere «come superare i mali e le ombre di un mondo chiuso»: aveva fatto anche progredire la Chiesa lungo la dorsale di quelle che sono le strade maestre indicate dal Concilio Vaticano II.
Quelle della risalita alle fonti del Vangelo, di una rinnovata missionarietà, del dialogo ecumenico e interreligioso in favore della ricerca della pace, della collegialità e povertà nella Chiesa, che insieme sono il timbro della vera Tradizione e di questi dieci anni di pontificato. Timbro che Francesco aveva espresso in modo programmatico già la sera stessa dell’elezione, nel primo saluto, nella prima preghiera e nella prima benedizione dal balcone di San Pietro. Nelle quali espresse da subito la volontà di farsi prossimo quale espressione dell’«intima unione della Chiesa con l’intera famiglia umana», come viene descritta nel proemio della costituzione pastorale Gaudium et spes, che è all’origine dell’invito alla prossimità, e il richiamo alla «conversione pastorale» che Francesco rivolgerà poi a tutta la compagine ecclesiale. Con lo stesso invito che quella sera del 13 marzo rivolse ai fedeli di compiere «un cammino insieme vescovi e popolo» aveva rimandato direttamente al secondo capitolo della costituzione dogmatica Lumen gentium sulla natura della Chiesa dove si afferma – testuali parole – che « vescovo e popolo fanno un cammino insieme». Da qui anche la sinodalità, che significa appunto “camminare insieme”, modalità e stile che appartengono alla natura apostolica costitutiva della Chiesa, e che in questi dieci anni è stata rimessa in moto nei Sinodi promossi dal Papa a partire da quello sulla famiglia. Come Vescovo della Chiesa di Roma, «che presiede nella carità tutte le Chiese», riprendeva inoltre la sorgente del suo ministero universale a cui è affidato il compito in quanto Successore di Pietro: quello di ricercare l’unità dei cristiani, per concludere infine «perché ci sia una grande fratellanza». Con questa preghiera il Papa aveva perciò già prefigurato la ricerca dell’unità del genere umano e della pace, che sono confacenti al ministero petrino e che lo hanno portato attraverso il dialogo – valore radicato nell’agire di Dio verso l’uomo, come tutta la storia della Salvezza evidenzia – a gettare ponti dall’Occidente all’Oriente.
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E anche con le altre religioni, fino alla firma del Documento sulla fratellanza umana siglato il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi con il leader sunnita al-Tayyeb, intraprendendo i viaggi apostolici dalla Terra Santa all’Egitto, dal Marocco all’Iraq, dal Kazakistan al Bahrein, al Sud Sudan, fino all’ enciclica Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale, che come la Laudato si’ è posta sotto il patronato di Francesco d’Assisi e indica una fratellanza che si estende non solo agli esseri umani ma all’intero creato. In quelle che sembravano parole estemporanee, pronunciate da Francesco la sera dell’elezione, c’era già dunque tutto, sgorgando dalla fonte della fede e dall’aver fatto proprio il Concilio Vaticano II nella sua interezza come resourcement, «risalita alle sorgenti», affinché si comprenda la Chiesa e la sua missione nel solco della Tradizione. E hanno fatto anche comprendere come non sia il Papa a fare la Chiesa, e quanto sia assolutamente improprio guardare a lui come a un personaggio separato dal corpo della Chiesa, che è di Cristo. Solo Cristo con l’azione dello Spirito può muoverla e farla andare avanti, come sottolineò nell’intervista del 17 novembre 2017 che mi rilasciò per Avvenire, dopo il viaggio ecume nico in Svezia, dove ribadì (e lo fece poi più volte): « Non sono io. Questo è il cammino dal Concilio che va avanti, che s’intensifica... motus infine velocior, come dice Aristotele. Questo è il cammino della Chiesa. Io seguo la Chiesa». È questo ciò che resta di dieci anni di pontificato. Non è la Chiesa “di” Francesco. © RIPRODUZIONE RISERVATA «La sera dell’elezione chiedendo di compiere “un cammino insieme, vescovi e popolo“, ci ha riportati al cuore del Vaticano II» «Conservo la paginetta che mi dette prima del Conclave in cui indicava le urgenze ecclesiali In questi anni ha fatto capire che non è il Papa a fare la Chiesa: parlando con lui mi ha ricordato più volte che a muoverla è Cristo con lo Spirito».