Percorre 50mila chilometri ogni anno per le strade della Siberia, su una vecchia Toyota, per andare e tornare dalle sue parrocchie, fra Novosibirsk e due paesi a oltre 300 chilometri di distanza. Le strade in Siberia sono lunghe, il paesaggio spesso bianco di neve, e don Francesco dentro quel vasto orizzonte recita il Rosario, oppure, da poco, usa una app del cellulare che mentre guida gli legge meditazioni, e vite dei santi. Lo ascolti e la sua vita ti pare quasi una riedizione, nel terzo millennio, di quella del Pellegrino russo, monaco itinerante a piedi nella steppa. Ma don Francesco Bertolina, 54 anni, missionario della Fraternità San Carlo Borromeo, è italiano; e le vie che lo hanno condotto in un mondo tanto lontano sembrano, a chi le ascolta, misteriose, come spesso lo sono quelle delle vocazioni degli uomini di Dio.A casa, a San Nicolò di Valfurva, in Valtellina, sono in cinque fratelli: la fede tramandata in casa nelle preghiere della sera, il papà falegname. Da ragazzo lavora con lui in Valfurva, a riparare i tetti. A 15 anni, in un istituto professionale di Sondrio, conosce dei ragazzi di Gioventù studentesca e un professore, Gilberto Baroni, con cui stringe una profonda amicizia. Dentro a questa amicizia la vocazione si fa strada naturalmente. Il giovane alpino di leva a Bressanone è un ragazzo timido, ma sempre più certo. Nel 1984 è il primo seminarista della Fraternità San Carlo, a Roma, e verrà ordinato nel ’92. Il fondatore della Fraternità, Massimo Camisasca, oggi vescovo di Reggio Emilia, gli consegna un biglietto: «Lascia che il Signore si serva di te, senza chiederti il permesso», c’è scritto. Francesco credeva di partire per Nigeria, invece viene mandato a Novosibirsk. Che oggi è la terza città della Russia: ma sulle carte geografiche di allora – ricorda oggi don Francesco, in una settimana di riposo con i suoi confratelli nelle Dolomiti – «si faticava a trovarne il nome». Era già stato laggiù per un anno, per il tirocinio, nel ’91. La prima impressione, «una città grande e grigia, case tutte uguali, di modo che faticavi a distinguere la tua». Una città allora marchiata dall’architettura sovietica, dal cemento di falansteri simili ad alveari. Latitudine 55 gradi Nord: d’inverno si può arrivare a punte di meno 52 gradi, d’estate a più 44. Da novembre a marzo la neve copre tutto di bianco. Diciamolo, andare a vivere in Siberia, un nome che da noi evoca deportazioni e gelo, è una prospettiva che spaventerebbe molti. Eppure il ragazzo della Valfurva, trentenne, parte contento: «Non aspettavo altro che di dire il mio sì». È il mistero delle vocazioni missionarie. Chiunque si sentirebbe smarrito, così lontano da casa, e dai suoi. Don Francesco, alto, con gli occhiali e quella sua aria timida, no: «Per me la mia casa – dice sereno – è Gesù Cristo, che mi accompagna ovunque». E dunque nessun luogo gli è straniero. Lo ascolti, prendi appunti e non capisci; ma invidi questa estrema libertà.A Novosibirsk, quindi. Francesco vive in un appartamento, in una piccola comunità di confratelli. Il Muro è da poco caduto, ma in questa periferia dell’impero quasi ancora non se ne sono accorti. La vita è quella dell’Unione Sovietica. La religione ai margini, o dimenticata. La presenza cattolica è molto rara. «Per lo più – dice Bertolina – si trattava delle famiglie dei deportati tedeschi della zona del Volga, che arrivarono qui nel ’41». Arrivavano pigiati in ottanta su un vagone, e a volte non sopravvivevano al freddo e alla fame. Tra i vecchi, quelli in cui la fede cristiana era sopravvissuta a tanto dolore, il sacerdote incontra figure straordinarie. Racconta con tenerezza di Rosa, un’anziana del Volga: «Il Venerdì Santo leggeva ad alta voce meditazioni sulla Passione ai suoi, fino alle tre del pomeriggio. Era dal ’36 che non vedeva un sacerdote, e come è stata felice di vedermi arrivare... Era una donna di una religiosità naturale e straordinaria: all’alba del 15 agosto si alzava, andava in giardino e con un largo gesto invitava i fiori a aprirsi, in onore della Madonna. Quando mi dava un’offerta non dimenticava mai di lasciarne una parte "per le anime dei morti, che non hanno nessuno"». Oppure Bertolina ricorda Margherita, tredici figli e un marito alcolista, che una notte di Natale, in chiesa, alla lettura del Vangelo di Luca, scoppiò a piangere: «Io non avevo capito – disse – che in quelle notti da profuga, nei pagliai, Gesù dormiva accanto a me».
Nel villaggio di Palavinnoje, a 330 chilometri da Novosibirsk, don Francesco cominciò a costruire la sua piccola chiesa. Gli ronzavano attorno, aiutandolo a portare i mattoni, i bambini del paese. «Ma tu chi sei, perché sei qui?», domandavano. «Io ho mostrato loro la foto, su un libro, di una chiesa ortodossa, e loro mi hanno detto che quella era la casa di un re. Ecco, ho spiegato, io costruisco la casa per il re dei re». Le voci girano nel piccolo villaggio, e arrivano al nonno di quei bambini, un carbonaio, che va a trovare il prete italiano, legge il Vangelo, si interroga. «In fin di vita, poi, per un tumore ai polmoni, mi accoglieva in casa e si alzava dal letto, e mi raccontava i passi del Vangelo», ricorda don Francesco. «Mi colpì in lui un’evidenza: chi incontra Cristo, ha bisogno di annunciarlo».Tracce di una fede antica e profonda, sotto all’annientamento del socialismo reale. Una fede sopravvissuta in piccolissimi numeri: 18 fedeli in una parrocchia, 15 in un’altra. Ma dei numeri a Francesco non importa. Il suo, dice, è «un lavoro di presenza, di celebrazione della Messa, di amministrazione dei Sacramenti. A me pare che proprio nei piccoli numeri risalti maggiormente il mistero che ciascun uomo è».Come un monaco itinerante per le distese della Siberia, il sacerdote attraversa quegli orizzonti sterminati, solo. Nel silenzio i suoi pensieri si fanno poesia: «Ogni attesa/ ha/ la forma/di Te», scrive. O scrive dei volti delle babushke, e del luccichìo dei laghi, al disgelo; dei vecchi Vangeli dei deportati, che sfoglia con devozione. Va a portare l’Eucaristia, a dare l’Estrema Unzione ai vecchi. Mille incontri gli rimangono nel cuore. In un villaggio al confine col Kazakhstan trova Antonina, una vecchia dagli occhi limpidi, che riesce a far battezzare i suoi nipoti. E le memorie tragiche della deportazione si sovrappongono a canti sacri bellissimi, carichi di fede e di dolore. «Chi ha sofferto – commenta don Francesco – impara a sorridere. Il sorriso più bello l’ho visto sul volto di Anja, 96 anni, in un villaggio della Siberia. Quando sorrideva, sembrava che si aprisse il cielo».
Il mondo, poi, cambia anche a Novosibirsk. «Il consumismo è arrivato pure laggiù, ora il centro della vita è il denaro. C’è poco lavoro, perché nei campi ormai fanno tutto le macchine. L’alcolismo è una grande piaga. È come se questa gente avesse in sé una grande domanda, ma, non trovando risposta, bevesse per dimenticare. Le donne sono più forti, cercano di tenere insieme la famiglia, ma molti uomini sono delle ombre. Ci parli assieme, e il giorno dopo non si ricordano di averti incontrato». Gioie e sofferenza nella vita di quest’uomo di poche parole, silenzioso, attento ai particolari come un contemplativo. «Quest’anno sono andato a prendere in un istituto tre fratellini. Erano così contenti di andare a fare una gita. In realtà, andavo a portarli dalla mamma, che era morta. "Ma come faccio a dire a questi tre che la mamma non c’è più?", mi chiedevo angosciato. Allora ho cominciato a raccontare del Paradiso, di come là si è felici, e solo così ho avuto il coraggio di dire loro della mamma». Un altro dolore, quest’anno: l’andarsene con una donna di un sacerdote russo, un amico. «Il dolore però – commenta lui, a voce più bassa – rafforza sempre il rapporto con Cristo. Ti costringe a domandare a Lui».
Ma se le chiedessero perché è andato tanto lontano, cosa risponderebbe? Lui, quasi sorpreso: «Direi che io non potevo non andare. Vivere, per me, è annunciare Cristo». E, aggiunge e ti meraviglia: «Io penso a me come a un bambino viziato, cui Dio ha concesso tutto». Un altro uomo felice, di una felicità misteriosa, non comprensibile a chi non crede. Ogni anno d’estate torna brevemente in Italia, e quel volo è il momento, racconta, in cui di nuovo si chiede. "Ma Tu, chi sei per me?". Non gli importa dove un giorno sarà sepolto, se in Valfurva o laggiù, tanto, dice pacato, «Cristo c’è dappertutto». Anni fa, tornando a casa gli hanno mostrato l’asse di un soffitto fatto cinquant’anni prima da suo padre, che sul retro portava scritto: «Chi troverà queste righe dica, per favore, un Requiem per me». Non immaginava che quel Requiem l’avrebbe recitato suo figlio, sacerdote, testimone di Cristo a seimila chilometri dalle sue montagne.