In materia di Ici, a Padova può più il regolamento comunale che la legge, tanto che non c’è esenzione per quegli enti che, pur prestando attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, e di culto (come previsto dall’articolo 7 della legge del 1992), non vedono coincidere la proprietà con l’utilizzatore. Una norma che coinvolge anche lo stabile in cui ha sede uno dei gioielli della carità della diocesi di Padova: le Cucine economiche popolari, a cui ogni giorno si riferiscono centinaia di persone nel disagio. L’ente Cucine economiche popolari (canonico ma non ecclesiastico civilmente riconosciuto), nato nel 1882 su volontà di Stefania Omboni per sostenere l’emergenza alluvionati, e poi assunto dalla diocesi, è solo il gestore/utilizzatore della realtà di assistenza; la proprietà infatti è in capo al Movimento apostolico diocesano. E anche se sempre di Chiesa padovana si parla, il particolare fa una differenza che si traduce in oltre novemila euro di Ici l’anno (per il 2011 l’importo è di 9.046,96 euro). La diocesi di Padova paga e non si tira certo indietro di fronte a leggi e regolamenti. E anzi si trova spesso a dover dibattere con quanti, contestando questa presenza in città, vorrebbero spostarla, perché concentra presenze non sempre gradite ai residenti, dimenticando la vicinanza alla stazione ferroviaria, primo elemento di aggregazione di varie forme di disagio.Anima delle Cucine economiche è suor Lia Gianesello, uno dei volti dell’ultima campagna dell’8xmille insieme ad alcuni dei numerosi volontari che si alternano nell’edificio di via Tommaseo 12. Solo apparentemente esile, l’elisabettina è il vero pilastro e semaforo delle Cucine: con lei non si scherza in fatto di regole, ma neppure viene rifiutato un pasto a chi non ha il buono o i 2,5 euro per pagarselo. La carità e i poveri vengono prima di tutto, ricorda l’economo diocesano don Rino Pittarello, delegato vescovile per la gestione di questa realtà: «Le Cucine economiche popolari manifestano l’atteggiamento della diocesi di rivolgersi ai più emarginati: sono le persone con meno speranze, tagliate fuori dalla società. Molti sono immigrati, ma ci sono sempre più italiani abbandonati a se stessi per diversi motivi: dalla perdita del lavoro al fallimento matrimoniale, e persone cadute nel vortice di droga, alcol e altre dipendenze». Oltre alle parole, sono però i numeri a parlare di questa presenza irrinunciabile in città che oltre ai pasti offre altre forme di aiuto e assistenza (docce, segretariato sociale, distribuzione vestiario e un centro di igiene e salute per eventuali emergenze dove si alternano 25 medici volontari). In media vengono distribuiti 550 pasti al giorno, con variazioni stagionali, per un totale di circa 10mila pasti al mese e oltre 130mila l’anno. Di questi oltre la metà sono interamente sostenuti dai buoni forniti da altri enti ecclesiastici (Caritas antoniana, Caritas diocesana, suore Elisabettine, Opera diocesana di assistenza e diocesi), a cui si aggiunge la generosità di privati donatori (seppure la crisi fa sentire una flessione anche su questo fronte, compensata però da un aumento di viveri offerti), e il sostegno della diocesi attraverso i fondi dell’8xmille, con importi che si aggirano sui 250mila euro l’anno. Dal Comune arrivano poco più di 33 mila euro, mentre i costi di gestione dell’intero complesso, che conta anche 12 dipendenti, è di oltre 530mila euro l’anno.