domenica 22 settembre 2024
A Parigi per tre giorni a confronto esponenti religiosi e i rappresentanti del mondo della cultura e della politica. Parla il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, che promuove l'incontro
Andrea Riccardi

Andrea Riccardi - Ansa

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«Oggi la guerra ha riacquisito una dignità che finora non aveva». Andrea Riccardi la chiama «riabilitazione della guerra». E la imputa a un «cambio di mentalità» che ha fra le sue cause anche l’amnesia del passato. Lo racconta anzitutto da storico. «Sono scomparsi i testimoni degli orrori dei grandi conflitti mondiali: da quanti hanno vissuto la Shoah alle donne e agli uomini, siano essi gente comune o con responsabilità istituzionali, che avevano sperimentato sulla propria pelle la guerra e ne conoscevano il male e la durezza», spiega l’ex ministro. Si respira un clima bellicistico che contagia anche l’Europa. «Sicuramente lo constatiamo nei suoi vertici e ciò dimostra l’incapacità di avere visioni politiche che si traduce in fragilità e subalternità», aggiunge il fondatore della Comunità di Sant’Egidio. C’è amarezza nelle parole di Riccardi. E preoccupazione. Ma non rassegnazione. Perché, avverte, «esiste un popolo della pace che non è soltanto quello delle manifestazioni, ma è il popolo di ogni giorno. Siamo noi. Gente che dice “no” alla guerra e che prega per la concordia della famiglia umana».

Un popolo che Sant’Egidio torna a radunare anche quest’anno. Stavolta a Parigi. Sempre nello spirito di Assisi, ossia alla scuola di Giovanni Paolo II che nel 1986 aveva chiamato nella città di san Francesco i capi religiosi e li aveva “uniti” in un’invocazione al mondo diventata grido di pace. “Immaginare la pace” è il tema dell’incontro internazionale promosso con l’arcidiocesi di Parigi che si apre domenica pomeriggio nella capitale francese e che si conclude martedì davanti al cantiere di Notre-Dame: quasi un’anticipazione dell’8 dicembre quando è in programma la riapertura della Cattedrale che sta rinascendo dalle ceneri dell’incendio del 2019. Le tre giornate targate Sant’Egidio metteranno a confronto esponenti religiosi e i rappresentanti del mondo della cultura e della politica (interviene anche il presidente Emmanuel Macron), ma avranno al centro anche i racconti di chi arriva dai Paesi in guerra.

Agenzia Romano Siciliani

Preghiera, poveri e riconciliazione sono i fondamenti della Comunità voluta nel 1968 da un giovane romano di 18 anni che da allora si spende per la pace. Pace che Riccardi ha contribuito anche a scrivere: in Mozambico, con le trattative che avevano portato agli accordi del 1992. «Il dialogo non è una tela di Penelope che si tesse il giorno e si disfa di notte per tenere impegnato l’avversario – afferma l’ex docente di storia contemporanea alla Sapienza –. Il dialogo diplomatico fa vivere il mondo perché offre soluzioni alle controversie. Ecco perché va fatta riecheggiare un’espressione di papa Francesco durante la sua visita a Santa Maria in Trastevere: “Il mondo soffoca per mancanza di dialogo”».

Professore, la pace è uscita dall’orizzonte contemporaneo e quindi occorre immaginarla per non scivolare nell’accettazione remissiva della logica delle armi?

Siamo in un tempo segnato dalle guerre aperte che si vanno eternizzando, ossia non finiscono, come attesta ciò che sta accadendo in Ucraina o in Terra Santa; dalla minaccia di un conflitto globale; da una cultura pubblica che ha espulso ogni riferimento al tema della pace. Ormai si parla solo di armamenti e di attacchi. È un gravissimo problema che dice come la nostra sia una cultura pietrificata in cui l’immaginazione si è spenta. Invece è urgente tornare a sognare la pace e a pensarla.

Partendo dal cuore dell’Europa come avverrà da oggi a Parigi.

L’incontro francese arriva in un frangente molto difficile anche dal punto di vista religioso. È difficile per le divisioni nel mondo ortodosso legate alla guerra fra Ucraina e Russia. È difficile per le tensioni ebraico-islamiche con l’islam che in larghissima parte sostiene la causa palestinese. È difficile perché talvolta i leader religiosi non si sottraggono al fascino di identificarsi con una nazione in guerra.

Come evitare che le fedi vengano usate per fomentare o legittimare gli scontri?

Le religioni possono essere benzina sul fuoco della guerra oppure acqua che contribuisce a spegnerla. Nella storia non hanno mai avuto un ruolo univoco. Eppure, al fondo di ogni tradizione religiosa, c’è un messaggio di pace. E quando gli uomini di fede si incontrano, questo afflato riemerge. È ciò che aveva compreso Giovanni Paolo II nel 1986: uno accanto all’altro per pregare e chiedere la pace; non più uno contro l’altro. Da allora il cammino che Sant’Egidio ha percorso tenendo vivo lo spirito di Assisi mostra che i mondi religiosi possono avvicinarsi ed essere piattaforma di dialogo. Del resto, ogni religione ha il dialogo nel suo Dna perché, come ricordava Paolo VI nell’Ecclesiam suam, la preghiera stessa è dialogo. Tutto questo rappresenta anche una risposta alle paure del mondo globale a cui noi reagiamo alzando barricate o ritenendo che i muri ci proteggano.

Eppure, se guardiamo alle guerre in Ucraina e in Medio Oriente, chi chiede la pace viene accusato di essere putiniano o antisraeliano.

La nostra intelligenza, come la nostra fede, cerca risposte di pace anche quando non si scorgono prospettive. Si tratta di una ricchezza, non di un pericolo. Però tali posizioni vengono spesso irrise. È un grave errore. Tuttavia la storia ci dice che le cose cambiano. Chi parlava di pace per l’Iraq o l’Afghanistan è stato prima scomunicato e poi ha visto gli altri convergere sulla sua visione. Comunque credo che occorra far presto. Vale per la tragedia che si consuma in Ucraina; vale per la drammatica situazione a Gaza; vale per gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas. Non è più ammesso tergiversare.

Nel 2004 lei intitolava un suo libro “La pace preventiva”. Venti anni dopo, sono ancora teorizzati e impiegati gli attacchi preventivi.

Reputo che sia necessario preparare la pace per evitare la guerra, mentre oggi gli Stati pensano di risolvere i problemi con le armi. E la corsa agli armamenti che si fa più frenetica in questi ultimi anni ne è la conseguenza. Anzi, il riarmo è un incentivo a fare la guerra.

A Parigi si parlerà anche dei conflitti dimenticati. Cominciando dall’Africa.

Il quadro è tremendo. Cito il Sudan dove si combatte una guerra senza fine con milioni di immigrati e rifugiati. O il Sahel in cui i giovani vengono attratti dal jihadismo. O ancora il Nord del Mozambico dove il fondamentalismo semina morte.

Papa Francesco continua a ripetere che la terza guerra mondiale non è inevitabile. Ma viene etichettato come un idealista.

Sulla pace Francesco è considerato un sognatore o un ingenuo. Ma la sua azione è coerente con quella di tutti i Papi del Novecento che sono stati capaci di interpretare il bene comune mondiale ben al di là del contingente.

L’equivicinanza di Francesco ai popoli che soffrono è giudicata equidistanza.

Anche durante le guerre mondiali si era riproposta la stessa questione. La posizione del Papa è una posizione originale dentro la storia. Ad esempio, Francesco è sicuramente vicino all’Ucraina ma parla con la Russia: il che non ne fa un filorusso.

E il Pontefice ha voluto anche la missione di pace affidata al cardinale Matteo Zuppi per il conflitto in Ucraina.

Si tratta di una missione che non è stata capita del tutto. Perché qualcuno l’ha ridotta a una “bacchetta magica” o a un duplicato dei canali diplomatici vaticani. Invece Zuppi ha portato in Ucraina, in Russia, negli Stati Uniti e in Cina – e sottolineo questi quattro Paesi – la sensibilità del Papa per una soluzione pacifica e umanitaria della guerra. Significativamente il presidente della Cei ha incontrato Biden e i rappresentanti della Repubblica popolare cinese. La missione ha disegnato un quadro. Ed è simile a quelle promosse dai Papi nel recente passato: penso a Giovanni Paolo II che aveva inviato il cardinale Roger Etchegaray da Saddam Hussein e il cardinale Pio Laghi da Bush all’epoca della crisi in Iraq.

Come contribuire dal basso alla pace?

Pregando nelle nostre chiese; chiedendo ai governanti una politica di pace; seguendo le evoluzioni delle situazioni; non lasciandoci cullare dalle onde di informazioni senza avere coscienza di quanto succede; aiutando chi è colpito dalla guerra come, ad esempio, fa Sant’Egidio in Ucraina. Non dobbiamo ritenerci impotenti. E serve far sentire la nostra voce per creare un orizzonte di pace che è propedeutico a iniziative in grado di far tacere le armi.

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