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cardinal Martini e fratel Ettore, pur così diversi, non potevano non incontrarsi. L’uno e l’altro amavano le periferie, quelle esistenziali ancor più di quelle geografiche. Nell’uno e nell’altro l’ardore di carità nasceva da una profonda vita spirituale». Parola di
monsignor Erminio De Scalzi, primo segretario di Martini a Milano, oggi vescovo ausiliare e abate di Sant’Ambrogio. A due anni dalla morte del gesuita biblista che Giovanni Paolo II elesse alla guida della Chiesa ambrosiana, a dieci dalla scomparsa del camilliano che si dedicò senza risparmio agli ultimi di Milano, «ricordare la stima e l’amicizia che legarono Martini a fratel Ettore diventa occasione per esprimere la riconoscenza affettuosa che la Chiesa e la città devono a queste due splendide figure, diversissime fra loro e con carismi differenti», afferma De Scalzi.
Quelle visite in via Sammartini
«Fratel Ettore – ricorda il presule – inaugura il Rifugio della Stazione Centrale il 1° gennaio 1979. Tutto è ancora molto precario, ma per tutti – malati, alcolizzati, anziani soli, le tante persone che vivono per strada, i molti immigrati che iniziano a popolare la città – in via Sammartini c’è un posto riparato dal freddo e un pasto caldo». E Martini? «Giunge a Milano un anno dopo. Vive le trasformazioni e gli sconvolgimenti che attraversano la città: il terrorismo, la corruzione, il disagio sociale, l’immigrazione di molti con fedi e tradizioni diverse. Il tutto è reso tragico da una corsa al profitto irreale che rende i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi».
Martini si sente provocato da quello scenario. «“Scrivo sui poveri nella Bibbia, ma non li incontro”, disse una volta. In verità – aggiunge De Scalzi – li incontrava, quand’era ancora professore a Roma. Seguiva un anziano di Trastevere che si sentiva abbandonato da Dio e dagli uomini». Anche fratel Ettore – giunto da Venezia alla metà degli anni ’70, dopo oltre vent’anni di servizio all’ospedale dei camilliani – si era sentito provocato dalle ferite della metropoli: «Com’è possibile che nella ricca Milano viva gente così disperata? E chi la aiuta?». A quelle domande diede risposta con la sua stessa vita. «Fratel Ettore incontrò molte critiche per il suo modo di fare – testimonia De Scalzi –. Fu interessante il modo con cui Martini gli diede il suo appoggio. Scrisse in quei giorni: “La Chiesa deve essere capace di scoprire i nuovi poveri e non essere troppo preoccupata di sbagliare nello sforzo di aiutarli in maniera creativa”. Quindi affidò il suo appoggio all’eloquenza dei gesti. A cominciare da quel 4 novembre 1980, festa di San Carlo, quando per la prima volta si recò al Rifugio». E vi passò l’intera giornata, pregando e mangiando con gli ospiti di via Sammartini, dopo averli serviti a tavola, affiancato da De Scalzi, l’uno e l’altro col grembiule legato ai fianchi.
«La visita fu un’idea del cardinale per festeggiare l’onomastico. Doveva essere una sorpresa; ma fratel Ettore era così contento da avvisare la stampa. Molte altre furono poi le visite private al Rifugio, senza giornalisti, con un preavviso dato all’ultimo momento. Fratel Ettore – prosegue De Scalzi – era felice di contraccambiare. Veniva in Curia, magari all’ora di pranzo, così era sicuro di trovare Martini per parlargli dei progetti o dei problemi che aveva. Intanto, aveva modo di mangiare con noi. Il sorriso luminoso, i capelli arruffati, la tonaca consumata, si sedeva a tavola. Lasciando sulla tovaglia impronte di polvere con le maniche».
Dalla preghiera al servizio ai poveri
L’ex segretario va al cuore di quella “sintonia”. «L’impegno di due persone così diverse, ma così simili nell’ardore di carità, nasceva dalla loro profonda vita spirituale. Fratel Ettore era un uomo di tanta preghiera, che a tutti proponeva di condividere, anche agli ospiti del Rifugio, a qualunque religione appartenessero. Martini, ad una Chiesa e ad una città strutturate e operose, ricche di istituzioni, inviò la sua prima lettera pastorale dal titolo "La dimensione contemplativa della vita". Voleva far riscoprire il primato della preghiera, che non distoglie dall’azione ma la sostiene e invera. Quella lettera dice molto del suo autore, della sua sensibilità, delle sue priorità pastorali.
Significativa la conclusione: “Ho scritto queste cose con la convinzione che la realtà più importante a cui la preghiera ci deve orientare è la carità”. In quel primo “dialogo” con i milanesi volle “insistere sulle radici personali profonde di ogni fare, di ogni nostro servizio alla gente e specialmente ai più poveri”. La Casa della carità, tenacemente voluta da Martini, fu un ultimo gesto eloquente che parla della sua carità. Congedandosi da Milano, disse: “Lascio questo piccolo segno, in modo che quando sarò a Gerusalemme saprò che non ci sarà gente abbandonata nella città”. Non meno significative furono le parole con cui, da Gerusalemme, partecipò al funerale di Ettore, che definì “gigante della carità”».
È memoria viva e feconda quella che aiuta a illuminare il presente, le sfide che “provocano” Milano e l’Italia d’oggi. «In giorni come questi, di imponenti arrivi di uomini e donne che fuggono dai loro Paesi, sentiamo farsi urgente il bisogno di uomini come Martini e fratel Ettore. Il loro esempio – auspica De Scalzi – sia di sostegno all’immane sforzo umanitario che il nostro Paese sta sostenendo».