
Piero della Francesca: “Natività” (1470-1475) dipinto custodito alla National Gallery di Londra (particolare) - .
Lo storico delle religioni Mircea Eliade racconta nel suo Diario di essere entrato un giorno nella basilica di San Marco: «avevo lasciato gli altri compagni stretti intorno alla guida… ero convinto che dovevo vedere da solo e che solamente così avrei potuto scoprire… scoprire che cosa? Non lo sapevo, né me lo chiedevo: sentivo soltanto che mi sarebbe stato rivelato “qualcosa”. E allora inaspettatamente fui accolto da quel Cristo in mosaico, un Cristo che non riconobbi, tanto assomigliava a un arcangelo. Christos angelos. Uno dei primi misteri, che fino a quel momento non avevo sospettato, né avuto modo di comprendere…». Davanti alla «incomparabile bellezza» di quel Gesù maestoso e luminoso come un arcangelo, Eliade è sconvolto: viene preso dalla grande emozione che spesso ci pervade di fronte alle opere di arte sacra, come se in esse si celasse un mistero che riguarda non solo il divino, il trascendente, ma anche la profondità di noi stessi, la nostra verità interiore.
Il racconto di Eliade è solo uno dei tanti, innumerevoli esempi che si potrebbero addurre a testimonianza della bellezza e della potenza conoscitiva che le opere d’arte vengono ad assumere quando cercano di trasformare in immagini visive le storie narrate nella Bibbia. Fin dai primi secoli della nostra era, con l’espansione del cristianesimo prese a diffondersi nel mondo il bisogno di mostrare in immagini gli eventi e i personaggi descritti nei testi biblici. E da allora le chiese si sono riempite di affreschi, quadri, statue raffiguranti il mondo delle Sacre Scritture. Ma da dove viene questa propensione potente a trasformare in immagine la dimensione del divino, proprio quando la Scrittura stessa sembra vietarlo esplicitamente e perentoriamente? «Non farti scultura né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra…» (Esodo 20, 4). Come mai tale interdetto all’immagine, che il mondo ebraico ha fatto proprio da sempre, è stato invece scavalcato o eluso dal mondo cristiano?
Credo che una possibile risposta si nasconda in due paradossi, insiti fin dall’origine sia nella particolarità delle storie bibliche sia nel carattere specifico della rivelazione cristiana. Innanzitutto occorre notare che lo stile biblico, a differenza di quello espresso in grandi opere letterarie del passato come l’Iliade o l’Odissea, evoca sì straordinari eventi (la creazione del mondo, il diluvio, l’esodo...) ma stranamente li descrive poco, non si sofferma mai sui particolari, sull’aspetto esteriore di cose e persone. In questo modo però ci costringe a immaginare il non detto, il sottaciuto. Proprio perché elude la descrizione esplicita, la Bibbia diventa così una grande produttrice di immagini interiori, ci spinge a “vedere” interiormente quel che il testo non ci mostra. E a questo punto però la tentazione, la spinta a raffigurare visivamente, artisticamente quanto nel testo è solo alluso, diventa irresistibile. Come mai però gli ebrei hanno, diciamo così, “resistito” a una simile tentazione, hanno rispettato l’interdetto all’immagine, e i cristiani invece no?
Lo spiega bene Giovanni Damasceno, grande teologo bizantino del VII secolo: con l’incarnazione, con la venuta di Gesù Cristo, Dio si è reso visibile ai nostri occhi e noi quindi lo possiamo raffigurare in immagine: «Finché Dio è invisibile, non farne l’icona. Ma dal momento che vedi l’incorporeo divenuto uomo, fa’ l’immagine della forma umana; quando l’invisibile diventa visibile nella carne, dipingi la somiglianza dell’invisibile». Ecco la chiave per comprendere la straordinaria forza del legame fra Bibbia e arte. Le opere d’arte che nel corso dei secoli si sono profuse a trasformare in immagini le storie bibliche hanno cercato, ogni volta provvisoriamente e ogni volta di nuovo, di dipingere la somiglianza dell’invisibile.
Se dipingere l’invisibile, se raffigurare, trasformare e ridurre in immagine il mistero di Dio, è un compito impossibile, e per ciò stesso interdetto, noi possiamo però raffigurarlo indirettamente, dipingendo qualcosa che, allusivamente, lo evoca, “gli somiglia”. Ma siccome, così facendo, l’immagine sacra messa in mostra si avvicina soltanto all’invisibile di Dio, ecco che, rendendo visibile ciò che solo indirettamente somiglia al Dio invisibile, finiamo inevitabilmente ed esplicitamente per mettere invece in mostra qualcosa di noi stessi: cercando di fare invano il “ritratto” di Dio, ci facciamo quasi senza accorgercene un “autoritratto”, trasformiamo in immagine chi siamo noi. In altre parole, raccontando attraverso le opere d’arte le storie della Bibbia, raccontiamo al tempo stesso che immagine abbiamo di noi, della nostra società, rendiamo visibile il mondo in cui viviamo.
Ed ecco perché, contemplando le opere d’arte sacra del passato, non veniamo soltanto a sapere come ci raffiguravamo un tempo il mondo divino, ma anche come i nostri antenati raffiguravano sé stessi. Il rapporto fra Bibbia e arte ci rivela così l’inesauribile mistero di Dio, ma anche la verità su noi stessi, la nostra storia, di epoca in epoca. Si potrebbe obiettare che la riforma protestante ha voluto ripristinare l’antico interdetto alle immagini sacre. Ma proprio il vuoto dei templi protestanti, privi di immagini sacre, mette ancor più in risalto, visivamente, il lato invisibile dell’immagine di Dio. E in quel vuoto fa risuonare con ancor più forza il suono della Parola predicata, la potenza e la bellezza dell’Evangelo che si fa annuncio, si fa musica protesa verso il mistero di Dio. Tant’è che nei templi riformati si è sempre dato ampio spazio alla musica, al canto comunitario: anche la musica sacra si rivela così un modo per “dipingere”, ma in forma di suono, la “somiglianza dell’invisibile”.
già presidente del Centro culturale protestante di Milano