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Dal sequenziamento genetico del virus Sars-CoV-2 alla presentazione dei dati degli studi clinici di fase 3 del primo candidato vaccino, sono trascorsi 314 giorni. Un tempo record: solo 10,2 mesi sono occorsi a Pfizer-BioNTech per sviluppare il vaccino a mRna. Tuttavia, all’epoca, il 20 novembre 2020, la pandemia aveva già causato nel mondo 1,35 milioni di morti. Che cosa sarebbe accaduto se la revisione degli studi da parte degli enti regolatori fosse avvenuta con 7 mesi di anticipo? Che cosa sarebbe successo, cioè, se anziché avviare le iniezioni l’8 dicembre 2020 – quando erano stati confermati 67 milioni di casi di contagio – la campagna vaccinale fosse partita l’8 maggio 2020, quando erano stati registrati meno di 3,8 milioni di casi? Gran parte di quei decessi si sarebbero potuti evitare. E i sistemi economici avrebbero risparmiato trilioni di dollari di danni. E conseguenze che si faranno sentire per generazioni.
Fronteggiare epidemie note e minacce pandemiche, modificare tempi e reazioni alle prossime minacce sviluppando vaccini in 100 giorni, e creare una rete globale di difesa dalle infezioni, sono le priorità di Cepi, la "Coalizione internazionale per le innovazioni in materia di preparazione alla lotta contro le epidemie". Fondata nel 2017 a Davos, in Svizzera, dai governi di Norvegia e Regno Unito, dal World Economic Forum, dalla Bill & Melinda Gates Foundation e da Wellcome Trust, è una partnership globale che coinvolge, quali finanziatori, organizzazioni pubbliche, private, filantropiche. Tra loro, anche la Commissione Europea e un gran numero di Paesi – dall’Australia al Canada, dalla Danimarca all’Etiopia, e poi Germania, Indonesia, Giappone, Kuwait, Malesia, Messico, Arabia Saudita, Svizzera, per citarne alcuni –, fino al Fondo di solidarietà Covid-19 della Fondazione delle Nazioni Unite. L’Italia ha aderito alla Coalizione nel 2020. Cepi ha sedi operative ad Oslo, Londra e Washington.
La Coalizione, che ha un piano quinquennale di attività da 3,5 miliardi di dollari, "arruola" scienziati di tutto il mondo. Che mettono nel mirino dell’arsenale terapeutico più aggiornato malattie e agenti patogeni temibili: Covid-19, Ebola, Chikungunya, Febbre di Lassa, Mers, Nipah, Febbre della Valle del Rift. La parola d’ordine è prevenire. Come? Lo spiega ad Avvenire la virologa Melanie Saville, direttrice della Ricerca e sviluppo vaccini di Cepi, e tra i massimi esperti di lotta alle malattie infettive.
Dottoressa, gli occhi del mondo sono puntati ormai da mesi sui vaccini. Voi, come Cepi, siete stati in prima fila da subito nello studio di quelli contro il Covid. Avevate previsto qualcosa del genere?
La Coalizione è nata sull’onda della grande crisi legata a Ebola che ha colpito l’Africa occidentale tra il 2014 e il 2016. Ci accorgemmo già allora che era necessario accelerare nello sviluppo di nuovi vaccini, concentrandoci su un ventaglio di patogeni che potevano rappresentare delle minacce epidemiche. Il senso era arrivare preparati, più preparati. Per diverso tempo ci siamo concentrati su un altro coronavirus: la Mers. Ecco perché quando è arrivato il Covid, nel 2020, la prima cosa che abbiamo fatto è stato guardare il lavoro che avevamo fatto – noi e tutti gli altri – sulla Mers alla ricerca di un “pattern”, una catena di congiunzioni e di somiglianze che ci consentissero di usare le piattaforme già utilizzate anche per il Covid-19. In questo modo siamo arrivati in fretta a individuare e finanziare 14 vaccini, di cui due si sono già rivelati efficaci: Moderna e AstraZeneca
Insomma, il lavoro che era stato fatto in precedenza su un virus simile ha permesso di ridurre i tempo nello sviluppo del vaccino...
Sì, e in maniera straordinaria. Nel mondo pre-Covid un tempo già considerato record per la produzione di un vaccino si aggirava attorno ai 4 anni. Durante l’emergenza segnata dal Covid-19, il tempo intercorso dal rilascio della sequenza genetica del virus alla presentazione dei dati degli studi clinici di fase 3 del primo vaccino candidato per la revisione normativa (Pfizer, ndr) è stato di 314 giorni.
Voi però vi spingete ancora oltre, con la promessa di produrre un vaccino – e per qualsiasi altro virus che possa minacciarci in futuro – in 100 giorni appena. Come pensate di riuscirci?
Oggi siamo a conoscenza dell’esistenza di circa 260 virus che infettano gli esseri umani, provenienti da 25 famiglie virali, e si stima che vi siano più di 1,6 milioni di specie virali appartenenti alle medesime famiglie virali ancora da scoprire presenti negli ospiti di mammiferi e uccelli, che sono i serbatoi più importanti per le zoonosi virali. Non sappiamo quando e quali di questi virus inizieranno a diffondersi, ma sappiamo che succederà. Il futuro del genere umano sarà, purtroppo, segnato da altre emergenze pandemiche. Dobbiamo essere pronti e la nostra sfida è quella di farlo studiando sin da ora questi virus e preparando una grande libreria di prototipi di vaccini per ciascuna di queste famiglie. Abbiamo tempo, stiamo partendo con un finanziamento di 3,5 miliardi di dollari per un piano di ricerca quinquennale: va usato per capire per ogni virus che specifico vaccino vogliamo, che pezzo di virus vogliamo utilizzare per costruirlo e per farlo funzionare, come agisce con gli altri virus che appartengono alla stessa famiglia. E ancora: per effettuare sperimentazioni, accumulare dati sulla sicurezza, portarci avanti con la catena di produzione. Se avessimo avuto un vaccino in 100 giorni, la nostra difesa contro il Covid sarebbe iniziata ad aprile 2020: fa impressione pensare a quanti milioni di vite avremmo potuto salvare.
Ma velocità e sicurezza vanno d’accordo?
Questo è un punto chiave. Vanno sempre di pari passo. Sulla velocità il Covid ci ha insegnato molto: per andare veloci serve produrre prima e per produrre prima serve rischiare dal punto di vista finanziario. Non si può aspettare, nemmeno due mesi, nemmeno uno: serve agire. I vaccini, una volta che sono stati individuati, devono essere anche immediatamente disponibili per tutti. La sicurezza è il lavoro costante che va garantito alle spalle dell’azione: i dati sui candidati vaccini e sulla sicurezza vanno raccolti costantemente, implementati, accumulati, rimessi in discussione.
I vaccini, che pure sono stati disponibili in fretta, non arrivano ancora in tutto il mondo però. Anzi, in alcuni Paesi non arrivano affatto...
L’impegno di Cepi per la massima condivisione dei vaccini a livello globale è stato chiaro fin dalla sua nascita: facciamo contratti solo con chi si impegna a rendere i vaccini accessibili, lo abbiamo fatto durante la pandemia ed è soprattutto grazie a questo impegno che il programma Covax – voluto da noi, Gavi, Oms e Unicef – ha distribuito 524 milioni di dosi di vaccino in 144 Paesi. L’obiettivo è raggiungere 1,4 miliardi entro la fine dell’anno. Noi stiamo facendo la nostra parte. E per la costruzione della libreria varrà la stessa regola.
Chi sarà coinvolto nel piano di ricerca sui candidati vaccini?
La nostra è una chiamata aperta a tutta la comunità scientifica. Contiamo di coinvolgere un numero enorme di scienziati in tutto il mondo e migliaia di laboratori e istituti di ricerca. In Italia abbiamo lavorato, in questi mesi, con diversi gruppi: fondamentale è stato l’apporto d’esperienza del microbiologo Rino Rappuoli, che a Siena è coinvolto in un importante progetto sugli anticorpi monoclonali.
Cerchiamo vaccini, li creiamo in tempi record ma ancora tante persone li rifiutano per paura. Cosa pensa del fenomeno dei no-vax?
Torno al tema della sicurezza di cui parlavamo poco fa: accumulare e verificare dati significa anche dare alle persone il massimo dell’informazione possibile su di essi. Soltanto attraverso la trasparenza assoluta possiamo sconfiggere la paura.