I ragazzi di una scuola del Friuli mostrano il patentino per lo smartphone
Prima le lezioni, perché la tecnologia va studiata e imparata. Come funziona Internet, cosa c’è dietro al display di qualsiasi dispositivo e che gli permette di collegarsi al mondo alla velocità della luce, o quasi; che cosa si prova, quando si entra in rete e in contatto con quel mondo, e quanto è opportuno starci; quali diritti si conservano e a quali responsabilità (anche penali) si è chiamati a rispondere. Poi gli esami e i test, per dimostrare di aver acquisito le competenze necessarie. Infine il grande giorno, nell’aula magna della scuola, con le famiglie e gli insegnanti e persino i giornalisti locali a immortalare un momento così importante nel proprio cammino di crescita: la consegna del patentino per lo smartphone. Lontano dalle circolari ministeriali coi divieti, facili da scrivere e difficilissimi da applicare, c’è la sfida di educare. E ci sono Mario, Alice, Stefania, che con altri 1.500 studenti delle scuole medie del Friuli Venezia Giulia appena prima di Natale si sono messi in tasca il loro certificato di ”idoneità” all’uso del cellulare. A giugno saranno 6.500 (che significa su per giù l’80% della popolazione scolastica della regione in questa fascia d’età), alla fine del prossimo gli istituti coinvolti saranno tutti i 160 presenti sul territorio, nessuno escluso. Significa che tutti gli studenti friulani di prima media, dal 2024, affronteranno e porteranno a conclusione un percorso di educazione digitale.
Nessun liberi tutti, s’intenda. Anzi. La convinzione e la raccomandazione fatta ai genitori e agli insegnanti dall’Associazione Media Educazione Comunità (Mec) – che da dieci anni lavora sul fronte delle nuove tecnologie e da due si occupa del progetto sperimentale sul patentino avviato nelle scuole in collaborazione con la Regione, i Comuni, gli uffici scolastici – è quella di aspettare, a regalarlo in prima media, lo smartphone. «Questo non vuol dire, però, mancare di realismo – spiega il coordinatore regionale dell’associazione e responsabile dei progetti, Giacomo Trevisan –. E la realtà ci dice che lo smartphone nelle loro vite è già entrato, attraverso l’uso che ne fanno i genitori e che spesso concedono loro, o in quelle degli amici con cui si accompagnano. Il nostro obiettivo allora è intervenire educativamente nel momento esatto in cui le ricerche ci dicono che questo passaggio alla tecnologia avviene in maniera più massiccia, che siano o no proprietari di un telefono». E questo avviene proprio in prima media. Quello del cellulare ai bambini, d’altronde, è il grande paradosso della nostra epoca: non metteremmo mai un’automobile in mano a un undicenne, ripetono i pedagogisti, eppure li lasciamo liberi di incontrare il mondo nella loro stanza, senza filtri e senza controlli. «Ecco perché ci è venuta in mente l’idea della patente, di qualcosa di simbolico che rappresentasse concretamente, soprattutto per i ragazzi, la necessità di una competenza certificata per il passaggio a cui tanto aspirano».
Già, perché il primo telefonino è nella lista dei desideri dei più piccoli dalla quarta o dalla quinta elementare e troppo spesso la decisione di regalarlo (con tanto di via libera ai social network) viene presa alla leggera anche dai genitori, che lo trattano alla stregua di un paio di scarpe o di un bel vestito. Non a caso, per ottenere il patentino, serve che anche mamma e papà seguano un percorso di formazione: incontri di discussione e confronto (a cui persino i più recalcitranti decidono di partecipare dietro le pressioni dei figli) in cui anche a loro viene spiegato che cosa significa, quel passaggio cruciale, e perché è così importante che ne siano protagonisti.Per i ragazzi il percorso è articolato nel tempo scolastico: lo smartphone si studia nelle ore di Educazione civica, in base alle indicazioni ministeriali (che ci sono, e da tempo) sulla cosiddetta Cittadinanza digitale, con 5 moduli da 2 ore ciascuno, al termine dei quali è prevista una verifica. E anche agli insegnanti, naturalmente, tocca un ciclo di formazione da 10 ore: la Mec entra a scuola solo il primo anno, accompagnando con educatori e legali e psicologi il cammino verso il patentino, poi gli istituti diventano autonomi, individuando i prof in grado di articolare il progetto di anno in anno, a tempo indeterminato. «Si innesca così un circolo virtuoso – continua Trevisan – in cui noi diventiamo semplicemente tutor e la scuola è messa nelle condizioni di gestire il percorso da sola».
La risposta dei ragazzi? Entusiasta, manco a dirlo. Non solo perché nelle ore di progetto sono coinvolti in attività e confronti a 360 gradi, «ma perché gli argomenti toccati (dalla privacy al cyberbullismo, dall’uso dei social alla gestione delle fake news) li interpellano quotidianamente e direttamente». Dopo il patentino, poi, il percorso non finisce: alle famiglie Mec propone la sottoscrizione di un contratto per lo smartphone che indica regole, tempistiche, divieti «e che va firmato dai genitori e dai ragazzi. Il senso del gesto, e del documento, è che il cellulare non è mai garantito: usarlo richiede fiducia, e se la fiducia viene tradita può essere ritirato». E poi un lunga serie di challenge formato famiglia, pensate in chiave educativa: quella che impazza di più è la disconnect challenge, che prevede una giornata in cui tutti (genitori e figli) lasciano il cellulare spento. «L’esperienza viene poi condivisa in un gruppo di lavoro e raccontata dai diversi punti di vista. È talmente stimolante da aver innescato altre sfide, tra cui quella più green della giornata senza elettricità». E ancora, per quando lo smartphone per un figlio si decide di comprarlo davvero, ecco la proposta della firma di un contratto «in cui siano indicati e messi nero su bianco i diritti e i doveri di ciascuno nell'usarlo in famiglia». Il progetto del patentino – non l’unico in Italia, senz’altro il più strutturato – ha attirato l’attenzione di altri territori: dall’anno prossimo aderiranno anche tutte le scuole medie della provincia di Trento, e altre due regioni si sono messe in contatto con Mec per capire come procedere nel cammino dell’educazione digitale. «Il nostro sogno sarebbe vedere riconosciuta questa pratica a livello nazionale – conclude Trevisan –, ciascun territorio in base alle proprie specificità, così da condividere i percorsi e mettere in rete le risorse, adattandoci all’evoluzione della società e ai bisogni dei ragazzi».
L'intervista all'esperto: «Il divieto? Sì, ma dobbiamo spiegarlo»
Il professor Marco Gui, che insegna Sociologia dei media all’Università Milano-Bicocca ed è direttore di “Benessere Digitale” (un centro di ricerca che studia la relazione tra media digitali e qualità della vita), lo chiama «principio di gradualità». Ed è tutto quello che manca oggi, sia nelle famiglie sia nella scuola, all’approccio all’uso delle tecnologie da parte degli adolescenti. La metafora è quella delle bicicletta: «Quando insegni a un bambino ad andarci, prima gli permetti di girare in cortile, poi gli fai fare un piccolo tratta di strada nel quartiere, accompagnato, poi si affrontano percorsi più impegnativi». Finché, è naturale, il bambino crescerà e la bici potrà usarla per spostarsi in città, da solo.
Si fa con la bicicletta e non con lo smartphone, professore...
Esattamente. Certe esperienze vanno fatte a determinate età e tutte le ricerche ormai convergono sul fatto che l’uso precoce delle tecnologie è dannoso, specie nei più piccoli e nei più fragili. C’è di più: una legge stabilisce che sotto i 14 anni non possano accedere autonomamente ai social network. Le agenzie educative – mi riferisco alla famiglia e alla scuola – dovrebbero convergere su questo punto, invece spingono nella direzione opposta. La scuola, in particolare, sprona a una connessione precoce: i ragazzi sempre più spesso devono collegarsi da casa, cercare contenuti in Rete. Questo è in netta antitesi con quello che sostengono medici ed esperti ed è proprio in questa frizione che si alimenta la grande confusione sull’argomento. Senza contare che anche i pedagogisti sono divisi tra i più negativi, che vorrebbero solo divieti, e i più avanguardisti, convinti che i ragazzi dovrebbero imparare a regolarsi da soli.
Che cosa bisognerebbe fare allora?
Serve un tavolo con regole comuni. E su questo tavolo vanno messe tutte le questioni aperte dal digitale nel mondo dell’educazione: sia le istanze di innovazione didattica, sia il tema della sicurezza in rete, sia quello dei danni nella precocità dell’accesso alle tecnologie.
E il divieto di smartphone?
Il divieto dell’uso del cellulare durante le lezioni contenuto nella circolare ministeriale è condivisibile (anche se sarebbe necessaria una differenziazione per fasce d’età), ma in realtà non cambia nulla nei fatti: era già previsto dal 2007. In ogni caso, i divieti non devono fare paura, ma vanno spiegati: perché vietiamo? E per fare cosa? Il divieto di smartphone a scuola ha senso nella cornice di gradualità di cui dicevo: prima dobbiamo formare i nostri ragazzi a stare nel digitale, poi farli allenare in ambienti protetti (per esempio il sito della scuola), poi (all’età giusta) possiamo permettere loro di procedere in autonomia.