«Non ci possiamo arrendere a un mondo diviso in due: noi e loro, Occidente e islam. Non possiamo accettare una contrapposizione così netta, così illogica... Il mondo spaccato a metà». Un sorriso amaro 'taglia' il volto di Monica Maggioni. «C’è un’altra strada per togliere ossigeno ai terroristi: raccontare il mondo con uno sguardo complesso. Riflettendo sulle differenze e respingendo le radicalizzazioni. Non steccati, non muri, non 'noi e loro'. Non sono belle frasi; è la strada giusta, direi obbligata... ». Una pausa leggera, poi un nuovo messaggio. «...Per chi fa informazione lo sforzo è raccontare la complessità di ciò che accade sul terreno. Senza slogan, senza certezze, solo con tanti punti interrogativi». Siamo al settimo piano di viale Mazzini per parlare con il presidente della Rai delle questioni che scuotono il mondo e interrogano le società. Solo di questo. Terrorismo, immigrazione, temi etici, temi sociali. Poi, quasi all’improvviso, un nuovo fronte scuote viale Mazzini: il figlio di Totò Riina nel salotto tv di
Porta a porta. Monica Maggioni intuisce subito la portata del caso, e riflette a voce alta. «Credo sia importante fare una distinzione. Da giornalista le notizie sono notizie, le storie sono storie. E avere di fronte un mafioso che spiega la vita quotidiana dei mafiosi è certamente un documento. Ma poi ci sono le responsabilità e i contesti...». Si ferma su quelle due parole e, partendo da queste, scandisce un messaggio destinato a fare titolo: «... C’è il servizio pubblico. E c’è la storia del nostro Paese e la ferita che la mafia rappresenta. Nel servizio pubblico, e per i giornalisti del servizio pubblico, la vittima e l’aguzzino non possono avere stessa dignità di racconto a meno di non considerare sullo stesso piano la mafia e chi lotta contro la mafia». Ancora una pausa. Ancora una frase per indicare un obiettivo. «Sentire quel racconto in cui il figlio non giudica e non condanna il padre è difficile da sopportare. Vorrei vedere, invece di ascoltare le sue elucubrazioni, molta più attenzione quotidiana per le storie - quelle sì eroiche - dei cronisti minacciati dalla mafia, quelli che tutti i giorni sono su quelle stesse strade, sentono quegli stessi linguaggi di minaccia che oggi il figlio del boss fa cinicamente finta di non considerare. Vorrei che a fare quelle domande a Riina junior potessero essere i figli delle vittime della mafia, i protagonisti delle storie spezzate, perché il servizio pubblico non ha incertezze e non subisce fascinazioni; è dalla loro parte». La riflessione sul caso Riina prende la scena. Maggioni parla, riflette, si interroga. «La Rai racconta da sempre le storie dell’antimafia e continuerà a farlo», ripete sottovoce. Poi, resta dieci secondi silenziosa, e ci gira una proposta: «Mi piacerebbe che i diritti del libro di questo signore potessero essere sequestrati dallo Stato come beni di provenienza mafiosa e destinati alla lotta contro la mafia». Sono passati lunghi minuti. E la presidente della tv pubblica riprende da dove si era interrotta. Da quella riflessione alta. Dal dovere di dare spazio a «voci dissonanti». Di dire no a una «lettura in bianco e nero della realtà». È un messaggio netto. A evitare schemi 'facili', scontati. «Raccontare l’immigrazione come la grande invasione è la strada facile. È lo slogan. La sfida, invece, è spiegare che un’immigrazione controllata è una risorsa. E così l’islam. Soffiare sulle paure è facile, ma inutile. Raccontare i musulmani come una minaccia è un errore, un terribile errore». Sfidiamo Monica Maggioni con una domanda netta: il nostro Paese capisce la complessità, vuole letture complesse? «Assolutamente si. Capisce la complessità e ha a cuore l’integrazione. Anche oggi che soffiano forte i venti del peggior populismo». Un’altra pausa leggera. «Ma se succede, se i populismi prendono spazio, la colpa è anche mia e forse anche sua. Credo sia capitato sia a me sia a lei di scegliere una scorciatoia, di non esserci presi un po’ più di tempo per raccontare le cose con uno sguardo 'largo'».
Che intende per 'sguardo largo'? Ripensavo al video di Salah, il terrorista ripreso in discoteca a Parigi. Alla sua maglia arancione. Alla sua gestualità. La sigaretta tra le dita mentre flirta con una giovane donna bionda. Mentre balla con il fratello Brahim sulle note del loro
rapperpreferito, Lacrim. Era l’8 febbraio del 2015; il 13 novembre Brahim si farà saltare in aria negli attentati di Parigi... La loro vita non ha nessun rapporto con l’islam puro, con la religione. Molti di loro non sono nemmeno passati dalle moschee. Sono ragazzi, con una vita buia, che nel loro cammino verso la radicalità hanno utilizzato i simboli dell’islam, ma soprattutto i folli messaggi di al-Baghdadi: dietro questi si agita e prende forma la narrativa più comoda. E così i troppi Salah diventano i grandi eroi del male. E il suicidio la forma estrema di realizzazione.
Lei cancellò i video del Daesh, ora dice di cancellare i proclami di al-Baghdadi? Non si trattava di una semplice cancellazione. Avevo tentato di dire una cosa complessa e, invece, è passata una cosa semplice. E poi nell’era di Internet non ha senso l’idea della censura.
Che voleva dire sui video? Daesh costruisce storie capaci di esercitare un grande
appeal. Entra nelle teste di giovani. Li trasforma in terroristi anche usando i video. Allora, noi facciamo vedere tutto, ma non accettiamo il loro gioco, il loro racconto. Ecco quello che volevo dire. Togliamo le grandi musiche, i pezzi al rallentatore; frammentiamo i video in fotogrammi: raccontiamo come diciamo noi, non come vogliono loro.
Matteo Renzi ha una sua strategia per sfidare il terrorismo: investire in sicurezza e, parallelamente, in cultura. Credo profondamente che la sfida sia sul piano culturale. In uno degli ultimi vertici della Ebu (l’ente europeo che associa diversi operatori radio-tv,
ndr) i colleghi stranieri avevano capito la forza del messaggio del premier. Ricordo in particolare il capo della tv belga. Ne abbiamo riflettuto insieme: il fronte del terrore vuole distruggere i terreni comuni, vuole dividere, alzare muri; noi dobbiamo fare un lavoro di costruzione di percorsi, di contatti, noi dobbiamo cucire.
Il canone in bolletta vuol dire più risorse, ma anche più responsabilità e più idee. E magari anche più forza per raccontare il mondo come dicevamo: con le sue sfumature e le sue complessità. Penso a quello che si aspettano i nostri editori: gli italiani. Vogliono capire. Vogliono storie, approfondimenti, idee. E penso al modo di informarsi dei più giovani. Rai, per troppo tempo, non è stata dove erano loro. I nostri ragazzi non sono davanti alla tv e noi dobbiamo essere servizio pubblico anche dove sono loro: sui
tablet, sugli
smartphone. Dobbiamo provare a spiegar loro che il mondo è più complesso degli slogan che vincono in rete. E ingaggiare, prima che sia troppo tardi, un dialogo con loro.
Far passare gli slogan è nettamente più facile. Donald Trump è il campione di questo modo di raccontare il mondo in bianco e nero, della semplificazione. E la cosa più angosciante è vedere che le sue politiche fatte proprio di slogan diventano spesso modello. C’è una scorciatoia per quasi ogni cosa; una comunicazione senza più il rapporto con la realtà e con le persone. Bianco e nero. Noi e loro. Una comunicazione dove le sfumature sono bandite e le cose difficili da spiegare non hanno diritto di cittadinanza.
La brutale esecuzione di Regeni ha toccato i nostri giovani: Giulio era giovane come loro e aveva i loro sogni e la loro voglia di verità... Mi ha colpito il dolore assoluto di una famiglia, di una mamma, ma anche di un Paese. Un dolore che impone risposte. Non voglio fare ipotesi dietrologiche, dico però che c’è un grande bisogno di verità. Ecco il tema centrale: cercare verità continuamente, fino in fondo, senza permettere che una nuova storia spenga l’attenzione su una vecchia storia.
Regeni ha avuto giustamente tante prime pagine. Ma ci sono storie ignorate. Storie di cristiani perseguitati. Asia Bibi. Meriam. Le atrocità di Boko Haram. Avvenire le racconta, mentre tv e media hanno troppo spesso chiuso gli occhi. No, assolutamente no. La Rai ha raccontato tutto quello che lei dice. Forse non siamo riusciti a fare
mainstream, opinione corrente. Fa ascolto il resto, ma non ci si può arrendere alla logica dello
share. Chi fa informazione ha obblighi precisi, ma serve una volontà di sguardo anche da chi riceve l’informazione. Spesso manca, e la strada è un lavoro culturale sul Paese; è capire che bisogna 'costruire' insieme persone con sguardo complesso sulla realtà.
Eppure sulle unioni civili Galli della Loggia ha denunciato un pensiero dominante e proprio poca capacità di approfondire. Vale per le unioni civili, ma non solo per le unioni civili: la gente deve capire e noi dobbiamo spiegare. E non possiamo affidare sempre solo ai politici la rappresentazione della società italiana. Ci sono altre voci da affiancare alla politica per rendere il quadro più pieno, più completo. Ci sono grandi temi sui quali tutti quanti dobbiamo fare uno sforzo in più per dare ai cittadini un punto di domanda e non uno slogan. Io sulle questioni etiche ho più punti di domanda di certezze.
Insisto: i grandi media non sanno raccontare il Paese reale. E subito penso alla forza e alle difficoltà delle famiglie... Non so se sia parziale la rappresentazione o l’approccio ai temi. Magari c’è un altro modo per raccontare la famiglia. Magari altre idee. Altre chiavi di lettura. C’è un grande racconto di chi costruisce, di chi non si rassegna, di chi non si ferma. Da anni lavoro, studio, scambio materiali con i colleghi europei. È giornalismo costruttivo. È guardare il mondo e raccontare anche le pagine luminose.
Le 'giro' una domanda di una giornalista Rai: non è necessario un asilo nido per i figli dei dipendenti della tv pubblica? È una domanda giusta, è un problema vero, è una cosa sulla quale io che non ho figli ho insistito sempre. Ogni volta che ho potuto. E non riguarda solo colleghe, solo donne, solo mamme. Ci sono anche i papà che tante volte, davanti a una vicenda giornalistica che si allungava fino a tardi, mi dicevano 'vorrei lavorare ma devo andare a prendere i bambini'. Bisogna far ripartire questo discorso che tante volte in Rai è arrivato fino alla superficie per poi fermarsi.
'Domenica in' senza cronaca nera: bene o no? Non bene, molto bene. Se dicendo 'togliere la cronaca nera dai programmi Rai' intendiamo eliminare lo sguardo compiaciuto, l’atteggiamento
voyeuristico, il gusto per il dettaglio scabroso. L’inutile ritorno ossessivo su storie dolorose senza saper aggiungere nulla. Perché la tv pubblica deve servire prima di tutto a capire di più il mondo in cui viviamo.