C’è il figlio di Riina in televisione, ma non parla di mafia. O meglio, non parla di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Francesca Morvillo, delle loro scorte e di tutte le altre persone che il capo dei capi di Cosa nostra ha fatto ammazzare. E di che cosa parla alla tv di Stato, allora, il rampollo del boss, a sua volta condannato per associazione mafiosa e «fiero», parole sue, di essere stato generato da cotanto padre? Forse dell’Etna, della siccità o del traffico, come il Johnny Stecchino di Roberto Benigni? Non proprio. Ma non è meno paradossale pensare che sia andato a lanciare il suo libro, uscito proprio ieri con un titolo e una copertina vagamente ammiccanti al falso e deleterio mito della mafia italo-americana: «Riina family life». Vita in famiglia. Con il boss che tutti cercavano e che invece stava a casa sua, con moglie e figli. Che faceva notte per guardare le regate dell’America’s Cup e tifare il Moro di Venezia (che patriota! che italiano!). Che portava i figli al mare, mentre la Sicilia onesta bruciava tra le fiamme assassine di Capaci e di via D’Amelio. Scene che rimangono sullo sfondo, nella narrazione del figlio di Riina. Non sta bene parlare di tutti quei morti, diamine. Meglio la vita quotidiana e gli affetti paterni sotto l’ombra della Piovra.Non può stupire, perciò, che l’intervista andata comunque in onda ieri sera nel corso di
Porta a porta abbia scatenato una polemica ancora più rovente di quella che, l’anno scorso, aveva sollevato la presenza nello stesso salotto televisivo di due esponenti della famiglia Casamonica, sulla scia del pomposo funerale del capostipite Vittorio. Stavolta c’è di mezzo la mafia, quella vera, il nemico numero uno dell’Italia, della democrazia, della legalità. Si sono mosse quindi la Commissione parlamentare Antimafia, quella di Vigilanza sulla Rai, le associazioni, i familiari delle vittime. Perfino il presidente del Senato, che fino all’altro ieri faceva il procuratore nazionale Antimafia, ha annunciato che non avrebbe guardato la trasmissione. Non possono essere tutti impazziti, qualcosa che non va c’è. La professionalità di Bruno Vespa non è in discussione. Ma non può bastare sempre come garanzia "a prescindere". E forse non basta, a riequilibrare, neanche un ampio dibattito in studio dopo aver lasciato che il figlio del boss difendesse – come ha detto – «la dignità della sua famiglia». Né la puntata «antimafia», messa in palinsesto ieri per stasera, che ha tutto l’aspetto di una toppa su un buco.Sì, perché non abbiamo dubbi sull’opportunità di intervistare chiunque, qualora se ne presenti l’occasione. Dipende dal contesto, dai margini che si lasciano all’interlocutore. Non ci si venga a parlare, per favore, di libertà di informazione e di diritto di cronaca: sono materie sulle quali ci permettiamo di non accettare lezioni da nessuno. Il dubbio che abbiamo riguarda, piuttosto, il ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo, nel momento in cui rischia di trasformarsi nella vetrina promozionale di personaggi come Riina junior. Per la verità, il dubbio potrebbe venire anche quando quelle stesse telecamere si prestano al lancio dell’ultimo film di questo o quel regista. Ma è perfino ovvio osservare che non è la stessa cosa. Riina non è Vanzina. La certezza che abbiamo, infatti, è che in uno Stato democratico non vige la
par condicio tra i familiari dei mafiosi e quelli delle vittime dei mafiosi. Non è possibile, né accettabile. Sarebbe come mettere sullo stesso piano i razzisti e gli anti-razzisti, i seminatori d’odio e i costruttori di pace. Sono in tanti a pensarla così, ai vertici delle Istituzioni come tra la gente semplice. Ed è importante che anche la presidente della Rai, Monica Maggioni, nutra questa stessa certezza e non abbia esitazioni a ribadirlo (nell’intervista che pubblichiamo a pagina 8) e a sollecitare una risposta forte ed esemplare.Avere il figlio di Riina "in studio" e non pretendere che si misuri con la memoria dei martiri di Cosa nostra, che dia un giudizio di valore su uno dei periodi più bui e dolorosi della nostra storia, è una ferita. Ieri è stato detto che è qualcosa di molto simile ad affermare che "la mafia non esiste". Un pensiero insostenibile. Un salto all’indietro di decenni che il nostro Paese non può permettersi. Anzi, non deve.