Quando, a metà giugno, dai laboratori tedeschi di Tubinga e Francoforte vennero resi noti i primi dati sull’efficacia del vaccino anti Covid "Curevac", la delusione si diffuse rapida in tutta Europa. Per almeno tre ragioni: perché la protezione offerta dal farmaco non andava oltre un deludente 47%, e quindi sotto gli standard minimi del 50% indicati dall’Oms; perché svanivano le speranze europee di ottenere un antidoto a mRna che prometteva una tecnologia addirittura superiore ai competitor americani Pfizer e Moderna, al punto che autorevoli accademici non esitarono a definirla «rivoluzionaria»; e perché veniva "congelato" a data da destinarsi uno sforzo finanziario poderoso dell’Ue, che aveva sostenuto il prodotto anche prenotandone 450 milioni di dosi iniziali (30 delle quali destinate all’Italia).
Dopo quella cocente bocciatura, che ha molto pesato anche in termini di visibilità internazionale, l’azienda tedesca, nel frattempo affiancata dal colosso farmaceutico britannico Gsk, non ha buttato la spugna. Anzi, ha riavvolto il nastro, puntando a produrre, in una corsa contro il tempo, il candidato vaccino di seconda generazione "CV2CoV", non meno ambizioso del primo. Ma con risultati che, almeno in dati preclinici ottenuti sui macachi – e quindi da prendere con la necessaria cautela –, sembrano stavolta soddisfare le attese grazie ad «evidenze di risposte immunitarie fortemente migliorate» rispetto alla prima generazione di CureVac, e a una migliore protezione. La capacità neutralizzante degli anticorpi indotti è stata testata contro più varianti, incluse Beta, Delta e Lambda, quelle che più hanno impensierito gli esperti in relazione alla protezione dei vaccini. E i dati «sono molto incoraggianti», sottolinea Rino Rappuoli, responsabile della ricerca e sviluppo di Gsk Vaccines. Per lo scienziato «la forte risposta immunitaria e la protezione» osservate nei «test preclinici, rappresentano una pietra miliare per l’ulteriore sviluppo» di questa seconda generazione.
Lo studio condotto sui macachi in collaborazione con l’immunologo e virologo Dan Barouch, del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston, ha valutato esemplari vaccinati con il vaccino di prima generazione (CVnCoV) e con il nuovo. Con quest’ultimo sono migliorate «le risposte immunitarie innate e adattative», anche in termini di rapidità, sono stati riscontrati «titoli più elevati di anticorpi» e «un’attivazione più forte delle cellule B e T della memoria». È stata anche osservata una «maggiore capacità di neutralizzazione anticorpale verso tutte le varianti selezionate».
Nel modello animale, CV2CoV ha dimostrato di indurre reazioni «molto simili all’ampiezza delle risposte immunitarie osservate dopo l’infezione da Sars-CoV-2», osserva Igor Splawski, direttore scientifico di CureVac. La «tecnologia mRna con ottimizzazioni mirate», ha dunque mostrato di funzionare «nei primati non umani, sia contro il virus Sars-CoV-2 originale sia contro le più pericolose varianti».
Dati preliminari, è bene ripeterlo. Ma sulla base di questi risultati, le due aziende potranno avviare i test sull’uomo nell’ultimo trimestre dell’anno, cercare di recuperare parte del terreno perso e arrivare all’immissione in commercio, nel 2022, del primo vaccino mRna a targa Ue. Che modificherebbe gli approvvigionamenti nel vecchio continente. E cambierebbe i rapporti di forza nella "geopolitica dell’immunizzazione".