Una manifestazione delle mamme no-Pfas a Roma - Archivio Avvenire
Il veleno non si nasconde solo nell’acqua che esce dal rubinetto, ma anche nelle uova che si mangiano ogni giorno, nel fegato di vitelli e maiali, nelle albicocche, nei fagiolini. I 400mila cittadini contaminati delle provincie di Vicenza, Verona e Padova oggi hanno la certezza: i Pfas lungo gli anni non li hanno solo bevuti dalla falda acquifera, ma anche mangiati con prodotti di tutta la catena alimentare coltivata e allevata nella zona rossa dell’inquinamento.
Lo studio desecretato
I numeri pubblicati sono quelli del "Piano di campionamento degli alimenti per la ricerca di sostanze Perfluoroalchiliche" realizzato dall’Istituto superiore di sanità su commissione della Regione Veneto tra il 2016 e il 2017. Dati che a fine 2017 erano stati resi noti ma solo in forma aggregata e non geolocalizzata all’interno della grande area della contaminazione.
Dopo quattro anni di braccio di ferro con la Regione Veneto, sbloccati solo dalla sentenza con cui il Tar del Veneto dello scorso 8 aprile, le Mamme No-Pfas e Greenpeace hanno reso noto il numero di campioni, dove sono stati prelevati e soprattutto il loro grado di contaminazione.
I picchi rilevati riguardano proprio le carni (36.800 nanogrammi di Pfas in un chilo di fegato suino), ma anche il pesce (18.600 nanogrammi in un chilo di carpa), ma il dato più impressionante è quello relativo alle uova di gallina: 37.100 nanogrammi di Pfas in un chilo. Si tratta della somma di dodici sostanze perfluoroalchiliche, le stesse su cui si concentrano il biomonitoraggio della Regione e le analisi sull’acqua resa potabile grazie ai filtri a carboni attivi.
Dodici e non solo le quattro (Pfos, Pfoa, Pfna e Pfhxs) considerate dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) che a inizio 2020 aveva stabilito un’assunzione settimanale tollerabile di Pfas pari a 4,4 nanogrammi per chilo di peso corporeo. Con i livelli rilevati, esemplificano proprio le mamme e l’Ong ambientalista, basterebbe mezzo chilo di albicocche perché una persona di 60 chili superi la soglia. Soglia, tuttavia che l’Efsa indica per una popolazione generica, non certo per quella con il tasso di Pfas più alto nel sangue mai rilevato sul pianeta.
Quale è la situazione oggi?
L’interrogativo è d’obbligo. Quella che osserviamo in questo momento infatti è una fotografia scattata in realtà cinque anni fa. Nel 2017 erano bastati i primi dati aggregati perché i Gruppi di acquisto solidale della zona sospendessero i rifornimenti a chilometro zero. E alle tabelle sugli alimenti erano state correlate quelli dello studio, condotto sempre dall’Iss su 259 persone residenti tra Lonigo e Sarego, nella zona rossa vicentina, e su 122 agricoltori e allevatori attivi nella stessa area: a fronte dei limiti fissati a 8 nanogrammi di Pfoa per litro di sangue, i primi presentavano una mediana di 13,8 ng, mentre i secondi salivano a 40 con picchi di 159 nanogrammi. Agricoltori e allevatori, oltre che a livello sanitario, stanno già pagando anche sul piano economico e la pubblicazione dei dati nel dettaglio rischia di rappresentare il colpo di grazia per tutto il comparto.
Mamme No Pfas e Greenpeace imputano alla Regione Veneto (che al momento ci comunica di non voler replicare agli addebiti) inerzia istituzionale: dal 2016-17 non sarebbero infatti seguite altre indagini su vasta scala, nonostante le numerose matrici fortemente contaminate. «A ciò si aggiunge l’assenza di azioni risolutive volte ad azzerare l’inquinamento e a ridurre, almeno progressivamente, la contaminazione delle acque non destinate a uso potabile» si legge nello studio reso noto ieri. Di tutte le azioni stabilite nella deliberazione della giunta regionale numero 1494 del 15 ottobre 2019 non è chiaro quali siano state realizzate. A oggi è noto il solo provvedimento, prorogato fino al 2022, che vieta il consumo di pesce pescato in zona rossa.
Ma gli interrogativi che rimangono aperti sono molti, a partire dalla ragione per cui i dati non sono stati resi pubblici prima. E soprattutto: in questi anni quanti di questi prodotti sono stati consumati e da chi? Quanta di questa produzione è finita negli scaffali della Grande distribuzione organizzata? Per rispondere lo studio dell’Iss non basta, occorre un tracciamento che a oggi non risulta essere stato messo in campo.
Intanto il processo avanza
Nel frattempo, nel tribunale di Vicenza, avanza il maxi-processo ambientale che vede come imputati 15 manager di Miteni, l’azienda chimica di Trissino che per la procura è responsabile di avvelenamento delle acque potabili e disastro ambientale e delle controllanti Mitsubishi e Icig. Nell’udienza del 16 settembre i legali della difesa ha chiesto l’esclusione delle parti civili per numerose associazioni e singoli cittadini formulando eccezioni di forma: gli ambientalisti non sarebbero stati attivi nel territorio e le Mamme No-Pfas non avrebbero dimostrato la loro residenza effettiva nell’area al tempo degli sversamenti. Inoltre le multinazionali giapponese e tedesca sostengono che alcune delle prove a processo siano state rilevate senza che le società fossero informate. A questo e ad altre eccezioni preliminari si attende risposta nell’udienza del 30 settembre. Poi il processo entrerà nel vivo.
Dati e campioni incompleti. Le mamme cercano la verità
Per le Mamme No-Pfas quella sulla contaminazione alimentare è allo stesso tempo una battaglia vinta e una triste conferma. Una di loro, Michela Zamboni, racconta di come nel mese successivo alla sentenza del Tar dalle tre aziende sanitarie coinvolte (quelle di Verona, Vicenza e Padova) siano arrivate altrettante mail certificate con allegati i dati dello studio Iss. Degli oltre 1.200 campioni, in realtà, alle Mamme e a Greenpeace sono arrivati dati incompleti. La scelta di non rivelare la contaminazione nel dettaglio invece è loro: «Coltivatori e allevatori vanno tutelati – afferma Michela –, che cosa è stato fatto per loro in tutto questo tempo?». Ma le mamme scendono anche nel dettaglio dello studio del 2016-17.
«I dati che ci sono stati forniti rappresentano 12 Pfas e non solo quelli di Pfoa e Pfos resi noti quattro anni fa. Come vengono scelte queste sostanze? Mi chiedo perché non è stato fatto uno studio su tutte le molecole trattate dalla Miteni in quarant’anni e non vengono applicate analisi su ampio spettro. Nell’ambito del regolamento Reach l’Unione europea sta trattando ben 200 molecole». La base delle sostanze è comune, ma gli effetti no. «Sono tutti interferenti endocrini – riprende Zamboni –, ma quelli a catena corta, con quattro atomi di carbonio non si fermano al sangue, raggiungono i tessuti: i livelli di Pfas nel sangue si leggono nel biomonitoraggio della Regione Veneto, ma non sono mai state effettuale biopsie o autopsie per capire che cosa abbiamo nei tessuti».
L’altra questione sollevata riguarda la mancanza di campioni dalla zona arancione, dove pure le acque sono contaminate, come prova la chiusura causa Pfas della piscina comunale di Creazzo di cui si è avuta notizia la scorsa settimana. «Sfugge la logica che ha guidato la scelta delle aree, ma anche degli alimenti – rincara Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace –. Per esempio, perché un solo campione di radicchio? O perché alimenti coltivati in zona e ricchi di acqua, come melone o anguria, non compaiono tra le matrici considerate?». Ungherese torna a chiedersi quali azioni siano state messe in campo dalle autorità dopo lo screening «rimasto chiuso in un cassetto per quattro anni. Quali tipi di indicazioni hanno avuto gli allevatori di quei maiali o i produttori di albicocche? Studi come questi necessitano di aggiornamenti continui e soprattutto di essere accompagnati da provvedimenti, tanto più che a febbraio 2020 l’Efsa ha avvallato di quattro volte la soglia di tollerabilità settimanale nell’assunzione di Pfas».
Nella ricerca pubblicata dalle Mamme e dall’ong ambientalista c’è anche un appello alla comunità scientifica perché analizzando il complesso dei dati si possa comprendere meglio il rischio per la popolazione dell’area e anche per chi avesse consumato questi prodotti altrove. Marzia Albiero, presidente della ReteGaVicentina, auspica che «le istituzioni regionali e locali <+CORSIVO50>in primis<+TONDO50>, si adoperino per trovare soluzioni definitive a mitigare i danni sugli alimenti, facendo sostituire le fonti contaminate e andando incontro ai coltivatori danneggiati per poter offrire sul mercato prodotti sicuri, Pfas-free» e torna a chiedere che le analisi del sangue allo scopo di rilevare la concentrazione di Pfas siano rese possibili a tutta la popolazione: a oggi infatti sono riservate solo ai 15-64enni residenti in zona rossa.
I vescovi in campo accanto alle famiglie
Le Mamme no Pfas saranno presenti alla Settimana sociale dei cattolici italiani di Taranto. Saranno una delle voci della tavola rotonda sui mali che affliggono il Pianeta che aprirà l’evento della Chiesa italiana nel pomeriggio di giovedì 21 ottobre. Si tratta di un tassello in un puzzle di relazioni con la Chiesa, principalmente locale, che le mamme coltivano da tempo.
«Il dialogo e il confronto è continuo con monsignor Beniamino Pizziol, vescovo di Vicenza – racconta Anna Maria Panarotto di Lonigo che sarà in Puglia con Giovanna Dal Lago, altra mamma No Pfas –. Sulla scorta delle parole di papa Francesco ci siamo mosse fin dapprincipio perché anche in questa vicenda le comunità e le Diocesi si facessero coinvolgere in prima persona». Il vescovo Pizziol, il 10 ottobre 2018 ha condotto la preghiera interreligiosa con cui si è chiusa la più grande manifestazione contro la contaminazione finora realizzata, con oltre 10mila partecipanti. Negli stessi mesi, il vescovo di Padova, Claudio Cipolla, ha partecipato a un incontro organizzato a Montagnana, comune euganeo in zona rossa.
«Il nostro tentativo è quello di consapevolizzare le Diocesi del Triveneto, un territorio che soffre molto l’inquinamento legato all’industrializzazione – conclude Panarotto – e di creare legami con Chiese che vivono in altri territori contaminati, come Alessandria, dove sorge la Solvay di Spinetta Marengo».