Si chiama «disforia di genere» ed è un disturbo dell’identità che porta a considerare il sesso di nascita come un abito inadeguato, scomodo, se non insopportabile, e a desiderare di cambiarlo. Chi non ce la fa a reggere una natura che non sente propria si rivolge alla medicina o alla chirurgia e cambia sesso, chiedendo poi allo Stato un’identità anagrafica nuova. Ma occorre evitare che la «rettificazione » – come viene definita dal Codice Civile all’articolo 454 – venga pretesa per motivi sociali o ideologici, senza cioè solide ragioni psicologiche. In questo complesso viluppo umano e giuridico ogni pronunciamento giudiziario rischia di essere esibito come 'conquista' sulla strada della libera scelta del genere che si ritiene più adatto a se stessi per motivi insindacabili, il sesso
on demand. È quanto sta accadendo alla sentenza 2242 pronunciata nel novembre 2014 dal Tribunale di Messina (giudice Corrado Bonanzinga) con la quale un giovane ha ottenuto di veder accolta la propria richiesta di cambiamento di sesso anche senza ricorso al chirurgo (cioè saltando il passaggio della 'riattribuzione chirurgica del sesso'). Lungi dall’essere il primo caso in Italia com’è stato affermato – si ricordano almeno altri quattro precedenti: Roma 1997 e 2011, Rovereto e Siena nel 2013 – è però la vicenda che sta suscitando più clamore, con la rivendicazione di un diritto al riconoscimento dell’«identità di genere» e di una nuova legge che faciliti la procedura. La disciplina normativa in realtà già c’è e parla chiaro: la «rettificazione», secondo la legge 164 del 1982, si può fare «in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca a una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali». A chiarire ulteriormente la materia è poi intervenuto il decreto legislativo 150 del 1° settembre 2011, che all’articolo 31, quarto comma, spiega che «quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato». Il nodo è nelle prime tre parole, che diventano anche una spinosissima domanda: «Quando risulta necessario »? Qui le strade giudiziarie si dividono. Perché se Messina accoglie, Vercelli respinge: per la rettifica anagrafica dell’attribuzione di sesso – si legge nella sentenza n.159 del 27 novembre 2014 – la modificazione dei caratteri sessuali attraverso un intervento medicochirurgico è indispensabile. Nel dubbio, su un caso analogo il Tribunale di Trento ha rimesso gli atti alla Corte Costituzionale, con ordinanza del 20 agosto dell’anno scorso. Una decisione che – a rigore di procedura – avrebbe dovuto fermare il giudice di Messina, in attesa di un pronunciamento della Consulta. «Il nostro è un Paese nel quale si reclama un nuovo diritto al giorno, e dunque occorre molta vigilanza – riflette Lorenzo D’Avack, giurista e vice-presidente del Comitato nazionale di bioetica –. Ma se rigorose relazioni tecnico-scientifiche di periti nominati dal tribunale mostrano in modo inequivoco che interventi con farmaci o bisturi non sono indispensabili, e anzi potrebbero compromettere la salute della persona, allora l’'adeguamento dei caratteri sessuali' non 'risulta necessario', senza che questo debba aprire la porta a ulteriori rivendicazioni». Di «elementare errore interpretativo della legge» parla invece
Mauro Ronco, ordinario di Diritto penale all’Università di Padova: «Il nostro ordinamento esige un cambiamento fisico per dare certezza alla nuova identità che si vuol fare registrare all’anagrafe – spiega –. Non basta la volontà: serve un criterio oggettivo. Sentenze come quella di Messina sono un modo per aprire la strada all’ideologia dell’'identità di genere', che si basa sulla percezione che ciascuno ha di sé indipendentemente da qualunque dato di fatto».