Per due anni la sua speranza è stata quella di poter vivere in Italia, di studiare, formarsi e magari di trovare un lavoro. Una vita normale, lontano dal Gambia, la terra in cui è nato e dalla quale è fuggito in cerca di un posto sicuro in cui crescere. F.D., classe 1998, è arrivato in Sicilia nel 2015, quando aveva appena 17 anni.
Come molti suoi connazionali ha raggiunto la Libia attraverso il deserto, affidandosi ai trafficanti che dominano il Sahel. Ha passato quasi un anno nei campi di detenzione libici, subendo ogni tipo di violenza, come accade alle persone più vulnerabili. Nonostante il 2015 sia stato uno degli anni più letali per quanto riguarda le morti sulla rotta centrale del Mediterraneo, F. D. è sopravvissuto alla traversata. In quanto minore non accompagnato, la Commissione territoriale di Siracusa gli ha riconosciuto la protezione umanitaria. Arrivato a Roma è stato inserito in un circuito di accoglienza. Poi però è giunto il momento di rinnovare il permesso di soggiorno. Ed è qui che entra in ballo il decreto Salvini. La questura, in ottemperanza al provvedimento entrato in vigore nell’ottobre scorso, gli ha offerto la possibilità di conversione della protezione umanitaria in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
L’alternativa sarebbe quella di essere sottoposto nuovamente alla procedura di riconoscimento da parte della commissione territoriale. Ma per ottenerlo dovrebbe rientrare in uno dei casi speciali previsti dal decreto sicurezza in sostituzione della protezione umanitaria. Ma F.D. non è più minorenne e in Gambia le condizioni politiche non sono quelle di qualche anno fa. La prospettiva più probabile è quella di un rigetto. «Il caso di F.D. è rappresentativo di almeno 20mila persone nella stessa condizione – spiega ad Avvenire Giovanna Cavallo, supervisore legale del progetto Baobab Experience che ha seguito il ragazzo – . Si tratta di tutte le persone giunte in Italia negli scorsi anni che anno chiesto e ottenuto il riconoscimento prima dell’entrata in vigore del decreto sicurezza e che dovranno rinnovarlo».
Ma i requisiti che la questura chiede di possedere sono proibitivi. F.D. sta studiando, cerca di formarsi, frequenta una scuola di perfezionamento della lingua italiana. Al momento, quindi, non è in grado di inserirsi in un contesto lavorativo, anche perché il clima di odio non agevola l’assunzione di un rifugiato africano. Il paradosso è che rischia di perdere anni preziosi in cui è lo Stato stesso ad averlo convinto di poter costruirsi un futuro nel nostro Paese, inserendolo in un percorso di inclusione e accoglienza. Nel frattempo è bloccato a Roma: la questura gli ha semplicemente chiesto la conversione a ottobre e in dieci mesi non ha dato risposte circa la possibilità di ottenere un nuovo titolo, nonostante i numerosi appuntamenti ai quali si è regolarmente presentato. Ma è una prassi molto comune: la burocrazia lenta - non è dato sapere se indotta o strutturale - è un 'push factor' molto forte e in molti abbandonano la speranza e vanno ad accrescere le fila dei migranti fantasma. Se F. D. avesse una risposta, anche un rigetto, potrebbe ricorrere al giudice, ma nel frattempo la sua resta una vita sospesa.