lunedì 2 agosto 2021
L’importanza delle iniezioni, l’ipotesi che il virus diventi endemico, le decisioni da prendere sulla scuola e i mesi impossibili del lockdown. L'infettivologo del Gemelli Roberto Cauda si racconta
«Io e il virus»: le interviste di Avvenire. L’infettivologo del Gemelli Roberto Cauda si racconta

«Io e il virus»: le interviste di Avvenire. L’infettivologo del Gemelli Roberto Cauda si racconta

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«Io e il virus»: le interviste di Avvenire. Comincia un ciclo di interviste con alcuni fra i più famosi virologi e infettivologi italiani chiamati, oramai da un anno a questa parte, a spiegare il coronavirus e l’andamento della curva da giornali e tv. L’obiettivo è intrecciare il racconto del Covid a quello delle loro esperienze personali: chi erano e come esercitavano la loro professione prima della pandemia? Come l’hanno vissuta? Che cosa prevedono (e sperano) per il futuro di tutti e per il loro?


Roscia si fa accarezzare facilmente. Non ha paura del Covid, e sono subito fusa. «Nessuno è al sicuro» ripete il suo padrone al nuovo arrivato, senza abbassare – mai – la mascherina. In realtà, non sta pensando alla docile gattina europea. Piuttosto, alla coppa, agli stadi pieni e alle strade brulicanti di tifosi, dopo il rigore parato da Donnarumma; aggiungiamoci pure i Navigli, Trastevere e le piazze del sabato sera: il carosello dell’Rt è ufficialmente ripartito, la prospettiva di una nuova ondata di contagi in autunno non è più peregrina e Roberto Cauda, uno degli infettivologi più ascoltati in tv (nominato dal ministro Gelmini nel tavolo tecnico di confronto con le Regioni) appare preoccupato. «Attenti, il virus muta – ammonisce – ma non cambia: è diventato più contagioso e ciò rende inevitabile che ci sia prima o poi un aumento delle ospedalizzazioni e degli accessi alle terapie intensive». Forse non torneremo al 2020, ma c’è poco da stare allegri.

Per il “prof”, questa pandemia è la battaglia finale di una lunga carriera di medico e ricercatore. Iniziata in un laboratorio dell’Alabama. Sulla libreria, infatti, campeggia la foto di un dottorino al lavoro, all’Uab, l’Università di Birmingham negli Usa, quarant’anni prima che gli affidassero – assieme a Guido Antonelli, Giampiero Carosi e Andrea Pession – la redazione del capitolo su Covid-19 dell’edizione italiana dell’Harrison’s, la “bibbia” degli studenti di medicina e chirurgia. Genovese del ’52, ormai naturalizzato romano, Cauda è l’infettivologo del Policlinico Gemelli. Insegna Malattie infettive alla Cattolica. Dal suo curriculum, sterminato, riemergono incubi antichi, dai quali non ci siamo mai liberati del tutto – tra l’altro, fa parte del gruppo che monitora la meningite nel Lazio – anche se, dopo la rimozione collettiva dell’Aids, ci è voluto il «perfido coronato» (la definizione è del suo collega ed amico Antonio Cassone) per ricordare agli italiani che virus e batteri non sono relegati nel passato. Il Sars-CoV-2 è solo l’ultima progenie di una stirpe infinita e in quest’annus horribilis ha cambiato la vita a tutti, anche al chiarissimo professor Cauda: «Appartengo alla categoria dei "privilegiati" che nel periodo del lockdown più duro, quello del 2020 – ci racconta – potevano andare a lavorare, anche se, ovviamente, ho subìto delle restrizioni, come tutti; non ho potuto più viaggiare e soprattutto mi è mancato il contatto umano, particolarmente quello con i miei studenti, che nei mesi scorsi ho pian piano recuperato. Un intero anno accademico (2019-2020) vissuto in remoto: esperienza durissima».
L’uomo che parla ai virus messo al tappeto dal lockdown? «Sia chiaro che quello dell’8 marzo 2020, tagliando l’Italia in due, ha impedito che il virus sfondasse al Sud. È stato una cosa buona e giusta. Ciò detto, come tutti anche io l’ho sofferto – racconta –; del resto, a chi non piace viaggiare, incontrare persone, insomma a chi non piace la libertà? Ma è giusto rinunciarvi, se la posta in gioco è la sopravvivenza». Ne è talmente convinto che, chiacchierando, arriva ad accarezzare l’ipotesi che la mascherina «sia sdoganata come un accessorio normale per l’inverno, al pari dei guanti e dell’ombrello, per prevenire le malattie dell’apparato respiratorio», divenga cioè una presenza fissa nel nostro abbigliamento, come accade da decenni in Asia.
Ma torniamo a parlare del lockdown, che è il tormento universale di questi anni virali: il “Prof” non ha dimenticato il 3 marzo 2020, perché quel giorno ha tenuto l’ultima lezione in presenza all’Università di Parigi, e non ha mai fatto mistero del considerare la chiusura delle scuole un estremo sacrificio; anche per questa ragione è uno dei più convinti assertori della vaccinazione dei minori. «Per impedire che l’infezione possa diventare endemica in Europa a seguito della comparsa di nuove varianti, bisognerà vaccinare in un prossimo futuro anche i bambini, una volta appurato che i vaccini disponibili siano per essi efficaci e sicuri. I primi studi sembrano confermare questa ipotesi. Altrimenti, il virus continuerà a circolare, ancorché in forma asintomatica, nella popolazione infantile, con il rischio che emergano varianti potenzialmente pericolose anche per i vaccinati» ha scritto di recente sulla rivista Vita e Pensiero.

Cauda non minimizza le ansie dei genitori – «le società di pediatria hanno ammesso che ci sono dei rischi, come negli adulti, ad esempio le miocarditi» – ma osserva che «ci sono anche migliaia di bambini ricoverati nel mondo e qualche centinaio deceduti». Non può ancora essere spiegata, ammette, l’immunità dei minori, che li trasforma sovente in diffusori della malattia: si parla di una reattività incrociata con altri coronavirus endemici e di una immunità “addestrata” dalle altre vaccinazioni pediatriche, senza che vi sia alcuna certezza scientifica in materia. Una ragione in più, a suo dire, per ampliare la platea dei vaccinati. «Nei prossimi mesi si imporrà una scelta definitiva per impedire una nuova paralisi del sistema scolastico – dichiara –. Tra gli insegnanti c’è ancora il 15% di non vaccinati che dovrebbe porsi qualche domanda. La scuola italiana va messa in sicurezza».

Il tema interseca la polemica No vax di queste ore: così come promuove, in situazione estreme, l’odiato lockdown – «lo si applica in tutto il mondo perché in assenza di un’efficace copertura vaccinale non c’è una strategia migliore di questa e del distanziamento sociale» – l’intervistato non condanna umanamente chi si oppone ai vaccini ma smonta questa obiezione sul piano culturale: «Capisco che gente come me ha il privilegio di aver studiato queste cose – spiega – ma dovrebbe essere comprensibile a tutti che se non avessimo i vaccini il vaiolo non sarebbe stato debellato, ormai più di quarant’anni fa, ed avremmo ancora persone con le paralisi da poliomielite come succedeva negli anni Cinquanta e Sessanta».

Sul fronte epidemiologico, insiste tuttavia, il problema non è convincere i No vax bensì chi esita, pur senza nutrire delle preclusioni ideologiche nei confronti dei vaccini: «Molti credono di essere protetti comunque, saltando il vaccino, ma l’esperienza di quest’anno insegna che temporeggiare è pericoloso, perché si alimenta il contagio e si può rischiare di finire in rianimazione».

È fin troppo evidente che l’infettivologo – i cui studi condotti con Andrea Savarino sulla clorochina dal 2003 hanno acceso non poche speranze durante la fase acuta dell’emergenza – non appoggi la dottrina Johnson della riapertura totale: «Se il virus circola, magari non determina forme gravi o mortali come prima, ma muta come e più di prima, con la conseguenza che arriveranno nuove e più incontrollabili varianti» osserva. Tira fuori dal cassetto l’ultimo articolo del New England Journal of Medicine per ricordare che dalla prima alla seconda dose la protezione di uno Pfizer nei confronti della temibile variante delta passa dal 30 all’88 per cento. Dissente in modo deciso con l’approccio del premier britannico – «l’immunità di gregge non la raggiungerà» – e lo fa anche per caldeggiare la seconda fase della vaccinazione di massa: «Attualmente in Italia possiamo aspirare a raggiungere una immunità di comunità, non di gregge, per la quale è necessario procedere alla vaccinazione dell’età pediatrica, senza la quale abbiamo circa 6 milioni di italiani ancora esposti al coronavirus, oltre ai due milioni e mezzo di over 60 che attendono ancora la prima dose. Questi ultimi, non lo dimentichiamo, rischiano grosso».

Come molti altri uomini di scienza, anche questo medico è consapevole che il Sars-CoV-2 ci accompagnerà ancora a lungo. Del resto, ricorda, la pandemia più simile a quella che stiamo vivendo è la Spagnola, il cui virus, dopo l’esplosione (1917-20), continuò a circolare fino al 1956, quando fu soppiantato dall’Asiatica. «Darei per scontato che questo coronavirus diverrà endemico e resterà tra noi, ma non che saremo costretti a vaccinarci per decenni, in quanto probabilmente il Sars-CoV-2 in qualche modo si depotenzierà, se la vaccinazione sarà estesa» è la sua previsione. D’altronde, con Massimo Ciccozzi dell’Università Campus Bio Medico, Antonio Cassone e ad altri ricercatori, Cauda ha contribuito ad identificare la variante D614G del Covid-19, la prima ad aver mostrato al mondo che il coronavirus diventa via via più contagioso, ancorché meno letale: se questo è l’andazzo, il vaccino permetterà davvero di chiudere la partita prima dei supplementari. «Questo coronavirus non diventerà mai Ebola – sottolinea – solo perché i vaccinati sono ormai oltre un miliardo, ma non sottovalutiamo il ruolo dei serbatoi naturali del virus, che sono i Paesi poveri, luoghi in cui può circolare liberamente e mutare frequentemente. Non è un caso che le varianti che ci fanno paura sono brasiliane, nigeriane, indiane…».

Insomma, per il ricercatore cattolico, la pandemia è tutt’altro che finita. Anche se non è mai iniziata per Roscia: «Siamo in milioni a vivere con animali domestici – commenta infatti il professore – e in questa pandemia, che ci ha imposto di sacrificare i rapporti sociali, questi “amici” sono diventati ancora più importanti. Poiché in tempi di infodemia le paure immotivate sono dure a morire, ribadiamo che sul piano medico, come ha confermato l’Istituto Superiore di Sanità, un gatto, così come un cane, non rappresentano un pericolo di contagio per l’uomo. Semmai, il contrario. Soprattutto i felini, che rispetto ai canidi, sembrano essere più vulnerabili dal coronavirus». Peraltro, incurante di tutte le prescrizioni, la gattina continua a strofinarsi tranquillamente contro il suo padrone. Tanto, là fuori, il mondo è lo stesso del 1918, del 1956, del 2020…

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