Un laboratorio di ricerca del Bambino Gesù a Roma (Ansa)
Per i bambini affetti da una particolare malattia degenerativa che porta alla distruzione del sistema nervoso centrale, la ceriodolipofuscinosi neuronale di tipo 2 (Cln2), è stata finalmente trovata una cura. Grazie a una ricerca multicentrica pubblicata sul New England Journal of Medicine e condotta da quattro strutture internazionali tra le quali l’Ospedale Bambino Gesù, è stato messo a punto un farmaco in grado di bloccare l’evoluzione della malattia. «Lo studio è durato 3 anni – spiega Nicola Specchio, neurologo responsabile di Epilessie rare e complesse dell’ospedale pediatrico vaticano – e ha coinvolto 23 bambini di varie nazionalità affetti da Cln2 allo stadio iniziale- intermedio».
Come si manifesta la malattia?
Questa patologia recessiva a trasmissione genetica causa la mancanza di un enzima nel nostro organismo e determina una serie di sintomi, quali crisi epilettiche, disturbo motorio, perdita dell’abilità motoria, perdita di capacità di linguaggio, disturbo visivo, fino alla cecità. I bambini che ne sono affetti hanno una progressione della malattia molto rapida. Nell’arco di 10-12 anni si verifica il decesso.
Come funziona la nuova cura?
Attraverso la terapia è possibile rimpiazzare l’enzima che manca in questi bambini. Viene somministrato direttamente nel cervello. I bambini che sono stati trattati hanno mostrato un arresto della malattia, con tassi di successo pari al 90 per cento. La terapia ha già ottenuto l’approvazione degli enti preposti. Già ora altri bambini nel mondo stanno beneficiando della sua efficacia documentata. Nel nostro ospedale attualmente ne sono in cura 12.
Come è possibile diagnosticare la malattia?
Il problema è proprio la precocità della diagnosi: quanto prima viene fatta, e si somministra la terapia, tanto maggiori saranno i risultati. Occorre dunque diffondere la conoscenza di questa malattia in modo tale che i medici che valutano i bambini ai primi sintomi, quando questi sono molto pochi, sappiano individuarla il più precocemente possibile. Si tratta di una malattia che esordisce intorno ai 2 anni di vita, in bambini peraltro normali, con crisi epilettiche e un lieve ritardo di linguaggio. Poi i sintomi si presentano in sequenza nel corso degli anni successivi. È inoltre una malattia trasmissibile, i genitori di questi bimbi sono portatori sani: un quarto dei figli può manifestarla. Purtroppo ci sono famiglie che hanno due bambini ammalati.
È una malattia simile a quella del piccolo Alfie?
Ho visitato Alfie lo scorso settembre. La differenza principale sta nel fatto che Alfie non aveva la mutazione del gene che si chiama Cln2, differenza sostanziale nella causa della patologia. Le similitudini consistono invece nel fatto che anche il bambino inglese aveva una malattia degenerativa del sistema nervoso centrale in cui l’epilessia è stato un sintomo grave. Il piccolo manifestava inoltre tante crisi epilettiche difficili da trattare con un farmaco resistente. E poi c’era una progressione del danno neurologico con una morte cellulare dei neuroni.
Secondo lei Alfie poteva essere trattato con una terapia sperimentale?
Il bambino inglese aveva una malattia degenerativa la cui causa è rimasta sconosciuta. Per avviare un protocollo sperimentale bisogna invece conoscere la causa della malattia. Tutti i protocolli sperimentali terapeutici si basano infatti sulla correzione di qualcosa che non funziona, ma se non sappiamo cosa non funziona diventa difficile ipotizzare una terapia sperimentale.
Si potevano tentare altre strade?
Penso che i colleghi inglesi abbiano fatto tutto il possibile. Quello che noi avevamo proposto era un processo di cura più ampio, che prevede di accompagnare il paziente. Il processo di cura non consiste soltanto nella terapia farmacologica.
Quanto manca ancora per conoscere tutte le malattie rare?
La ricerca per fortuna progredisce. Ogni giorno vengono individuati nuovi geni che causano malattie rare e grazie agli studi che vengono fatti nei laboratori è possibile ipotizzare sempre nuove terapie. Ma c’è ancora moltissimo da fare. E purtroppo per portare avanti queste ricerche servono molti finanziamenti.