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Sono ore di sbandamento totale a largo del Nazareno. Matteo Renzi è lontano, nella sua Firenze. Probabilmente rientrerà proprio lunedì, per la direzione che vuole eliminarlo definitivamente di scena senza ulteriori attese, per affidare a Maurizio Martina il ruolo di traghettatore, con una gestione collegiale. C’è la new entry Carlo Calenda, che appena arrivato per prendere la tessera, già si dice pronto a lasciare, qualora il Pd decidesse di sostenere un esecutivo pentastellato. Ma ai piani alti del Pd il malessere è dettato dall’incertezza lasciata dal segretario, con le dimissioni al rallentatore.
Nel caos delle macerie, l’unica certezza è l’esigenza di vedere sgomberare la stanza della segreteria al terzo piano. Il 'giglio magico' malconcio resta in attesa di direttive, mentre Lorenzo Guerini e lo stesso vicesegretario cercano di convincere il leader uscente a mollare per consentire l’apertura di una nuova fase. Fioccano le smentite alle voce di una strisciante tentazione di fare da stampella ai 5 Stelle per un governo, in nome della responsabilità nazionale.
Una bufala, si lascia intendere, messa in giro dai renziani per giustificare la necessità di non mollare ancora il partito durante le trattative per le presidenze delle Camere e per la nascita del governo. E però tra i renziani stretti il timore resta. Così con forza, dopo Franceschini, anche Andrea Orlando nega: «L’area politica che mi ha sostenuto al congresso ha escluso la possibilità di un governo con i 5 stelle, così come con il centrodestra».
A conti fatti, «il 90 per cento del gruppo dirigente del Pd è contrario ad un’alleanza con il M5s», mette nero su bianco il guardasigilli, contestando chi ha alimentato questo dubbio, che sarà fugato nella riunione del parlamentino di lunedì. E però, la priorità sono le dimissioni di Renzi, insiste Orlando. «Dimissioni vere, formali», confermano Orfini e Richetti, certi che si stia seguendo la procedura prevista dallo statuto e che il segretario sia ben pronto a farsi da parte.
Tant’è che – a dispetto delle voci che lo volevano lontano dal Nazareno – probabilmente Renzi sarà presente alla direzione, per lasciare definitivamente la scena. Con l’idea di tornare protagonista in futuro con una mossa alla Macron. Ma intanto il Pd attende di vedere le valigie alla porta. Stordito dal precipitare degli eventi e dalle reazioni renziane, il premier Gentiloni va avanti con il suo governo, destinato a restare in carica ancora a lungo, in attesa che si sciolga il rebus del successore.
Ma guarda con interesse all’arrivo nel Pd di Calenda, figura a lui vicina anche nello stile, in grado di convogliare i consensi dell’area più moderata del partito e di difendere le politiche del suo governo. Dall’altra parte – con l’eccezione di Emiliano che ha già espresso la volontà di sostenere Di Maio – la sinistra interna è pronta a tornare in testa. E attende il momento per ricucire con i fuoriusciti di Leu, altrettanto delusi dal responso delle urne.
L’idea è quella di preparasi per il congresso, una volta chiusa la partita per le presidenze delle Camere. In base allo statuto, conferma il renziano Richetti, si può andare alle primarie o lasciare che sia l’assemblea a scegliere il nuovo segretario. Servirebbe un nome in grado di pacificare le diverse anime, dopo il leaderismo renziano. Per ora, a dare la disponibilità c’è Sergio Chiamparino, le cui aperture tiepide ai 5 stelle hanno inquietato una fetta del partito. Si tira indietro invece Calenda, il cui arrivo nel momento di massima difficoltà dei dem era stato visto come una disponibilità a concorrere per la poltrona.
«Gentiloni è il leader di fatto – replica il ministro in proposito –. Ora sta a Palazzo Chigi, in questa transizione difficile. Ho detto leader, non ho detto segretario», ma «il leader è quello che più di tutti può dare forza al partito». E personalmente, si schermisce Calenda, «sono appena arrivato».
Si fa dunque l’ipotesi di una figura autorevole presa all’esterno. Una soluzione potrebbe essere il ritorno in chiave salvifica di Walter Veltroni. Anche se allo stato, di fronte al quadro ancora molto confuso, tutto appare davvero prematuro. Si andrà per tappe e quella della direzione è propedeutica. Poi ci sarà la questione dei capigruppo (che andranno in delegazione al Quirinale) e quindi la decisione se accettare o meno di trattare sulle presidenza delle Camere. I renziani strettissimi non cedono facilmente. Sono una ventina al Senato e anche di più alla Camera. E non intendono sparire. Ma per le ormai ex minoranze, ora è il momento di fare un’analisi di quello che non è andato, e ripartire. Insieme.