Stefano Zamagni - IMAGOECONOMICA
Era tutto già scritto e non ce ne eravamo nemmeno accorti. Eppure, dentro l’onda lunga dei populismi e della grande crisi delle democrazie, l’anno nuovo può diventare occasione propizia per cambiare tutto. «La conquista dell’egemonia culturale, a livello mondiale, è avvenuta attraverso la forza del denaro e gli investimenti nelle armi» spiega Stefano Zamagni, uno dei padri dell’economia civile, già presidente della Pontificia Accademia delle Scienze sociali. Un visionario, si direbbe oggi, capace di anticipare gli scenari, senza aver paura di andare controcorrente.
«Nell’anno del Giubileo l’obiettivo non potrà che essere quello di modificare le regole delle istituzioni internazionali, dall’Organizzazione mondiale del commercio al Fondo monetario» prevede lo studioso che aveva avvertito per tempo sui rischi di «una globalizzazione che avrebbe creato disuguaglianze sempre più forti, per molto tempo ritenuti funzionali allo status quo, al mantenimento del sistema». Per la Chiesa, che con Papa Francesco non si stanca di denunciare ingiustizie e tradimenti del nostro tempo, l’anno che si apre avrà un valore molto alto, non solo a livello spirituale. «Nel 2000 - continua Zamagni -, con la campagna sulla remissione del debito, si pensava ancora di poter aggiustare tutto... un quarto di secolo dopo è evidente che andranno cambiate del tutto le condizioni che hanno generato quello stesso debito e che sono il prerequisito di una sorta di neocolonialismo dei più forti nei confronti dei più deboli, che perdura tuttora, anzi si è di molto accresciuto» spiega.
E a chi prevede una svolta in nome della pace nel 2025, magari sfruttando entusiasmo e promesse legare al nuovo corso della politica americana, il professore risponde proponendo «una riflessione sulla democrazia, che non è più funzionale alle ragioni del mercato. Donald Trump dice di volere la pace e il cessate il fuoco non perché è realmente interessato a tutto questo, ma perché ha capito che la situazione di conflitto non conviene più a nessuno. È lo stesso discorso che riguarda il capitalismo: i grandi capitalisti com’è noto non hanno più bisogno della democrazia per fare profitto. Sarebbe bastato leggersi cosa diceva nel 2009 il manifesto programmatico elaborato da Peter Thiel, fondatore di PayPal, sottoscritto tra gli altri da J.D. Vance, attuale vicepresidente eletto degli Usa, e più tardi anche da Elon Musk».
Cosa diceva quel testo?
Parlava dell’incompatibilità tra libertà e democrazia, che fino ad allora veniva considerata necessaria per il rafforzamento dell’ordine capitalistico. Da quel momento in poi, invece, la democrazia viene presentata come un sistema destinato ad alzare in modo spropositato i costi, a causa di un dispendioso sistema di welfare, e a rallentare enormemente i tempi decisionali. Anche la concorrenza e la competizione sono presentati, in quella circostanza, come modelli perdenti. Così un gruppo di super-ricchi della Silicon Valley, dalla California si è preso il mondo, attraverso la figura di Donald Trump. Vogliamo battere la Cina, si sono detti? Non ci resta che copiarla. Per sconfiggerla, gli Usa oggi vogliono diventare come la Cina. Questo è il modello che oggi furoreggia in America e bene ha fatto il mondo cattolico italiano a dedicare tanta attenzione proprio al tema della democrazia nelle ultime Settimane Sociali di Trieste. Difendere la democrazia, infatti, significa oggi sempre di più garantire spazi di immaginazione e pensiero che contrastino l’egemonia culturale dominante.
Sta dicendo che oggi nazionalismi e sovranismi vincono per mancanza di pensiero altrui?
Penso innanzitutto che tocchi agli intellettuali, italiani ed europei, ricominciare a fare cultura in senso alto. Poi occorrerà una minoranza profetica che si prenda la responsabilità di un processo costituente. Un processo da avviare con gradualità, certamente, e che a livello internazionale non potrà non chiamare in causa le sei grandi religioni presenti sul pianeta. È più che mai in discussione, in questa fase storica, l’idea di persona e di uomo, e i credenti devono avere pieno titolo per intervenire in questo dibattito.
Nel frattempo, vista dall’Europa, la partita per il futuro rischia di trasformarsi dal “New Green Deal” al “New War Deal”, con fondi impegnati negli investimenti bellici e grosse difficoltà nell’immaginare sforzi di pace. Non è così?
L’Unione Europa ha un’incapacità di visione, è vittima del suo stesso “cortotermismo”, la necessità di stabilire obiettivi solo a brevissima scadenza. Anche la Russia da questo punto di vista soffrirà, stretta com’è dentro l’economia di guerra a cui Vladimir Putin ha convertito tutta la produzione industriale del suo Paese. La Cina, nel rafforzarsi perché non ha speso un euro in tutto questo, diventa così un avversario ancora più temibile per Donald Trump. Alla fine, in Ucraina come in Medioriente, credo si dovrà approdare a una pace che sia il più equa possibile per tutti. Una pace equa, perché dovrà essere applicata ogni volta sul caso particolare che verrà affrontato.
Che modello di democrazia dobbiamo immaginare, per evitare di restare prigionieri della logica della vendetta e dell’odio?
Come ha scritto Jurgen Habermas in un recente saggio, le democrazie occidentali hanno ormai eroso il loro fondamento morale. Per questo è più che mai necessario assumere un modello di democrazia deliberativa, in cui al popolo viene dato il potere reale di intervenire nelle diverse situazioni. Di questo passo, le macchine sono destinate a sostituire le capacità dell’uomo, non ad aumentarle, e questo è uno scenario che non possiamo accettare. Occorre prendere il coraggio a due mani e impegnarsi a cambiare assetti e regole del gioco. È giunto il momento di riscrivere lo statuto delle grandi istituzioni internazionali, come il Fondo monetario, la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio. Sono soggetti, questi, che hanno assunto le fattezze del neocolonialismo. Pensi soltanto all’Africa: è possibile che in questo continente gli Stati debbano ancora oggi pagare di più per gli interessi che devono a questi enti senza poter estinguere il debito che hanno, non potendo spendere somme analoghe per capitoli cruciali come la scuola e la salute?
In questa cura per la democrazia malata, da cosa si dovrebbe partire a suo parere?
Dobbiamo immaginare una vera e propria ricostruzione democratica. Ripartiamo da Gesù di Nazareth, dalla Parola che abbiamo tutti colpevolmente dimenticato. La Parola è incarnazione del pensiero e Papa Benedetto XVI sottolineava spesso come la società odierna soffra di mancanza di pensiero. Il pensiero è molto di più della semplice comunicazione, è dare senso alle parole che pronunciamo. Pensare il bene, e in particolare il bene dell’altro, aiuta ad uscire dagli egoismi in cui viviamo e a realizzare un modello di amicizia civile. Il compito degli intellettuali che oggi si sono eclissati è proprio quello di ricominciare a diffondere un pensiero, a fare cultura, a fare politica in senso alto, a prendersi responsabilità, a costruire cose nuove.
Se guardiamo dal punto di vista temporale all’Anno Santo che si è appena aperto e lo confrontiamo con il Giubileo del 2000, sembra di essere finiti in un tornante inatteso della storia: allora la grande speranza per un mondo più giusto, con il progetto di rimettere il debito ai Paesi poveri, sembrava a portata di mano. Nel 2025 l’incubo delle guerre e della fame, per tanti popoli, appare di nuovo prevalente rispetto alla buona notizia del Vangelo.
Con l’arrivo del nuovo millennio, si pensò di poter aggiustare tutto. Ora è diventato evidente che bisogna cambiare le regole che sono alla base della creazione del debito, che tiene prigioniere intere comunità. Ha ragione Papa Francesco: viviamo in una società basata sull’usura, una piaga legalizzata. Non basterà puntare, come si è sempre fatto in buona fede, sulle buone pratiche. Sarà piuttosto necessario cambiare quelle che San Giovanni Paolo II chiamava le “strutture di peccato”.