Giulio Andreotti, con il suo lunghissimo cursus honorum che ha attraversato la Prima Repubblica e parte della Seconda, è stato da sempre dipinto come l’uomo simbolo dello Scudocrociato, l’incarnazione, la quintessenza della democristianeria. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio e storico contemporaneo, ha invece una lettura originale e controcorrente. «Non voglio spingermi fino a dire che Andreotti non fosse un democristiano – spiega in questa intervista – ma certo la sua storia è soprattutto quella di un cattolico romano. Dove le due parole, cattolico e romano, hanno un significato pregnante».
In che senso, professor Riccardi?Il cattolicesimo, sia come fede che come universalismo, è stata la dimensione in cui Andreotti si è sempre mosso. E la romanità, quella respirata fin dall’adolescenza e rafforzata con la vicinanza di tutti i papi, da Pio XII a Giovanni Paolo II, vuol dire guardare il mondo dall’alto del Colle vaticano. Non voglio con questo negare la laicità politica di Andreotti. Tuttavia tante scelte di Andreotti sono state sempre in perfetta sintonia con la visione della Chiesa. Basti pensare al fatto che lui, uomo di destra, aderì all’apertura ai comunisti, perché quelli erano i nuovi orientamenti della Chiesa sulla politica orientale. Ha lavorato fedelmente con De Gasperi, ha fatto da tramite tra De Gasperi e il Vaticano. Ma erano diversi, lui era quasi un "cardinale esterno".
Montanelli disse una volta che De Gasperi entrava in chiesa per parlare con Dio, Andreotti con il parroco...Non possiamo parlare dei colloqui di Andreotti con Dio, perché attengono alla sfera più intima e segreta. Posso però testimoniare la sua profonda fede e la sua pratica religiosa, che lo portava anche a aiutare con grande generosità i poveri, i bisognosi, le persone in difficoltà. Quanto ai preti, sì, ci ha sempre parlato; li ha ascoltati, aiutati, considerandoli dei perfetti mediatori sociali con la gente. Basti pensare al rapporto così peculiare che aveva con il suo collegio e con i parroci del suo collegio.
Un democristiano, insomma, un po’ atipico, anche perché privo di un vero orizzonte ideologico...Andreotti non aveva la visione di Moro o il riformismo di Fanfani, era l’uomo del governo. La sua caratteristica era la mediazione con la realtà presente. Questa caratteristica è stata la sua forza e, per alcuni, anche il suo limite, perché sconfinava nello scetticismo. Per lui il dialogo, la mediazione, la trattativa era sempre possibile. E, a ben guardare, l’Andreotti più grande è forse quello della politica estera, con la sua capacità di crearsi una rete di rapporti politici e personali, fatti di stima e prestigio. È stato un grandissimo ministro degli Esteri capace di trovare, in tempo di guerra fredda, uno spazio originale per la presenza italiana nello scacchiere internazionale.
Sono stati anche molto criticati i suoi rapporti personali e politici con personaggi internazionali scomodi, come Assad, Arafat o lo stesso Gheddafi.Non ha mai avuto timore di parlare con nessuno. Era dell’idea che bisognasse parlare e negoziare con tutti. Era questa la cifra del suo pragmatismo e del suo realismo politico. Ma Andreotti era un vero uomo di pace. Era stato ministro della Difesa, ma era convinto che gli eserciti non dovessero mai combattersi. La sua arma era il negoziato. Mi sono però sempre chiesto una cosa...
Ovvero?Come mai Andreotti, sempre così pronto a negoziare, non lo fece nei giorni del sequestro Moro.
Lei è il biografo di Giovanni Paolo II. C’è qualche episodio inedito che ci può raccontare sul rapporto tra Andreotti e il papa polacco?I rapporti tra i due erano molto buoni. Woytila stimava Andreotti e lo sostenne durante la sua difficile vicenda processuale. Non così buoni erano i rapporti con il cardinale vicario Ugo Poletti, specie dopo che questi organizzò il Convegno sui mali di Roma. Un appuntamento che si trasformò in una vera e propria denuncia da parte dei cattolici sul malgoverno cittadino delle giunte democristiane. Andreotti non la prese bene. E mi raccontò che per fargli fare la pace con Poletti, intervenne lo stesso Giovanni Paolo II, che li convocò entrambi nel suo studio.
Era, a suo modo, un politico molto moderno: utilizzava lo sport, il calcio, i libri, la televisione, le amicizie con gli attori, le battute, per accrescere la sua popolarità. Qualcuno è arrivato a dire che in questo senso è stato quasi un precursore di Berlusconi.Non sono d’accordo. Il suo modo di pensare e di fare politica non concedeva nulla al populismo, del quale aveva orrore.
Un’altra circostanza che sfugge: come mai lui, politico così scaltro e accorto, alla fine degli anni Ottanta non si accorse che la Dc e la Prima Repubblica stavano per implodere?In effetti fu così. In modo diverso, Scalfaro, Cossiga e De Mita si accorsero della crisi epocale che si stava avvicinando. Lui no. Forse non gli fu estranea una certa identificazione tra la Dc e l’eternità della Chiesa.
Nelle reazioni, anche autorevoli, alla morte di Andreotti si nota spesso una sospensione del giudizio. In molti hanno affidato la valutazione complessiva dello statista scomparso ai posteri o alla storia. Lei, da storico, che ne pensa? È una figura molto complessa C’è l’Andreotti della politica italiana, c’è l’Andreotti internazionale e, infine, c’è l’Andreotti di tutti i giorni, con la sua
pietas e la sua carità verso i poveri. È un uomo che ha molto avuto, ma anche molto sofferto. Credo che la sua storia debba essere in gran parte ancora scritta.