martedì 9 luglio 2024
L'ex premier: «A Parigi già prima del voto si guardava a un possibile governo tecnico. Per un vero centro, laici e cattolici stiano insieme»
Mario Monti

Mario Monti - ANSA

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«La democrazia è molto in difficoltà in tutti i sistemi liberali. E questo alza l’asticella perché è forte la concorrenza di altri “metodi”. Occorre rendere le nostre democrazie più efficaci e anche capaci di gestire situazioni di contrasto con le autarchie. I problemi mondiali acquistano sempre più spessore, l’orizzonte delle decisioni tende invece ad abbreviarsi, senza una prospettiva. La conseguenza è che l’esasperata competizione fa specializzare un po’ ovunque l’“homo politicus” nell’acquisire consenso rispetto al saper governare bene. E questo genera controsensi, perché le cose che andrebbero fatte invece lo riducono, il consenso». Da Mario Monti, senatore a vita ed ex premier, che da un paio di mesi ha dato alle stampe un libro chiamato proprio “Demagonia”, arriva un'analisi netta sullo stato della democrazia che papa Francesco domenica a Trieste ha definito «non in buona salute».

Professor Monti, per il governo Meloni la democrazia si rende più efficace tramite il premierato. Lei è contrario, perché?

Perché per sua natura spacca il Paese in due, anche più dell’autonomia. Quando il capo del potere esecutivo è eletto direttamente dal popolo, la conseguenza è che l’altra parte lo osteggia ancor più apertamente. Inoltre non si tiene conto che due dei Paesi a noi più vicini - Francia e Usa -, con questo sistema, sono le due repubbliche strutturalmente più in crisi oggi. Qualcosa vorrà dire.

A proposito, come valuta il voto francese?

Guardi, nei giorni scorsi ero a un convegno ad Aix-en-Provence. Sono rimasto sorpreso nel vedere l’enorme interesse dei media locali per sapere da me come funziona un governo tecnico. Segno che a quella soluzione si guardava molto già prima del voto, che lascia comunque i problemi tutti aperti.

L’Ue è segnata dalla crescita delle destre che polarizza il quadro politico. È il segno che i governi non hanno saputo dare risposte adeguate?

È così. I populismi fanno leva sulle istanze nazionali. Salvo riscoprire l’Ue quando arrivano al governo. È questo meccanismo che dobbiamo scardinare per essere persuasivi verso i cittadini.

Ma come?

Occorre intervenire come priorità sul funzionamento dell’Unione più che pensare a nuovi strumenti, tipo un nuovo Recovery plan. Sono molto preoccupato per il peso crescente che ha il Consiglio Europeo. Se vediamo le istituzioni come un grande edificio, il piano più alto è quello occupato dai vertici fra capi di Stato e di governo; la Commissione sta sotto e un po’ tutti, nel prendere decisioni operative, si fanno condizionare dallo spirito del piano di sopra. Non dovrebbe essere così.

Lei sarà per sempre associato al governo di fine 2011, nato sulla spinta della Bce e dei mercati. Non crede che siano, in parte, anche operazioni simili a minare la fiducia dei cittadini?

Un po’ sì, perché si palesa un circuito delle decisioni che viene dal di fuori, eterodiretto. E sicuramente nel 2011 l’influenza della Bce fu molto forte. Per di più non era una sua competenza diretta. D’altra parte, è anche vero che quelle politiche restrittive andavano fatte in quella fase storica, si rischiava di far fallire un Paese con lo spread a 574.

Lei nel libro rifiuta l’etichetta di fautore dell’austerità e chiama in causa anche Draghi (che cofirmò con Trichet la lettera della Bce) e Berlusconi.

Sì, perché assieme a una serie di misure che tanti , me compreso, ritenevano giuste e urgenti, c’erano altre richieste che si potevano rifiutare, come fece la Spagna di Zapatero. Mi riferisco in particolare all’anticipo al 2013 del pareggio di bilancio, che fu imposto e venne accettato da Berlusconi. Mentre io poi tentai, invano, di riprocrastinarlo al 2014.

Peraltro, dopo il suo governo i partiti populisti e sovranisti non vinsero le elezioni del 2013. Mentre questo è avvenuto dopo il governo Draghi nel 2022.

Sì, è così. Vede, quando parliamo di Europa tendiamo a vedere come “creatori” di problemi solo sovranisti e popu-listi, ma sono sempre stato convinto che – già prima del 2019 – anche i partiti tradizionali europeisti, popolari, socialisti e liberali, abbiano contribuito. Perché non hanno dato priorità alla costruzione dell’Europa. E se i cittadini non vedono l’Ue che cresce, finiscono col cercare altro. Ecco, Meloni è stata brava, evidentemente, a incarnare questo “altro”.

La sua lista Scelta civica fu basata sull’assunto che in Italia servisse un’operazione-verità come premessa per una “politica seria” e non eterodiretta.

Non ho mai avuto la presunzione di pensare che la mia fosse una politica buona. I miei ministri e io cercammo, questo sì, di governare al meglio in una fase estremamente difficile. Ma se la qualità del dibattito politico deve essere buona, primo requisito è che ci sia una robusta dose di memoria. Nei po-litici, nei cittadini e – vorrei sperare – anche nei media. Da noi la memoria manca, lo si è visto sulla riforma delle pensioni.

In copertina ha messo il pifferaio di Hamelin. Vuole dire che il consenso politico si compra con facili illusioni?

Negli anni abbiamo visto grandi operazioni di politica economica fatte per riscuotere consenso: il bonus Renzi degli 80 euro, il reddito di cittadinanza anche se questo rispondeva pure all’esigenza di creare uno strumento già adottato in altri Paesi, soprattutto i vari bonus, fino a quell’apoteosi che è stato il 110%. Più volte ho sottolineato un aspetto troppo poco notato, che il Superbonus è stato una gigantesca patrimoniale alla rovescia, regressiva: il contribuente medio ha pagato qualcosa che accresceva il valore di una minoranza, ristretta, di proprietari immobiliari.

Eppure, per i 5 stelle, dopo il trionfo del 2018 quelle misure non hanno accresciuto il consenso, anzi.

Vero, è sempre possibile pensare però: chissà dove sarebbero finiti se non avessero introdotto quegli strumenti.

Lei è stato antesignano di una terza forza che unisse il riformismo cattolico, moderato e liberale.

Non ho mai amato il concetto di moderatismo, ho sempre pensato che in Italia serva piuttosto una certa radicalità. Serve per avere una maggiore concorrenza, per un sistema fiscale più moderno, nella lotta all’evasione fiscale. Io sono per un’economia sociale di mercato, come fu indicato nel Trattato di Lisbona. Che è una visione cattolica del mercato, ma è anche quella di Luigi Einaudi che infatti teorizzò una terza via parlando di un mercato libero, ma che può dare risultati non giusti sulla distribuzione della ricchezza. Per questo vanno corretti gli effetti distorsivi.

Guardando alla destra e alla sinistra italiane, quali limiti vede in esse?

In Italia di fondo si detesta troppo il mercato, ancora oggi. E funziona male l’aspetto sociale di riequilibrio. Questo dovrebbe essere perciò al centro del programma di una forza politica moderna. E non è banalmente una questione di sinistra contro destra, distinzione oggi meno rilevante. La vera distinzione va fatta rispetto a chi accetta o no l’integrazione internazionale, una disciplina del bilancio pubblico, l’Unione Europea. Nel mio anno di governo notai che nel “corpaccione” del Pdl, come pure a sinistra, c’erano taluni che tenevano molto a questi punti, altri molto meno, generando contrasti dentro questi due poli. Per questo pensai a una nuova forza.

Perché allora una terza forza stenta a decollare?

Nel mio caso, io non sarò stato capace come leader di partito, ma confesso che fu una netta amarezza per me, dopo aver avuto un certo successo col 10% alle Politiche 2013, constatare che l’anima cattolica degli uni e l’anima laica degli altri riprendevano il sopravvento, anziché insistere sulle ragioni dell’unità. È la difficoltà che vedo ancora oggi.

Lei racconta gli incontri con papa Benedetto XVI, a cui confidò pure il progetto Scelta civica. Cosa la colpì soprattutto?

Fu una ricchezza potersi confrontare con una personalità come la sua. Era attento anche agli aspetti politici. Ricordo a esempio quando sottolineò che «non basta dare il buon esempio, serve dare conto e ragione delle scelte che si fanno». Per i leader sarebbe un precetto da onorare.

Per chiudere: l’Ue è orientata a una nuova fase di allargamento per sottrarre una serie di Paesi alla possibile influenza russa. Non sono adesioni precipitose, che rischiano di creare altri problemi in futuro all’Unione?

Sì, possono esserlo. Rinunciare però all’allargamento sarebbe errato. La via d’uscita è divenire più audaci e incalzanti nel fare le riforme istituzionali necessarie per tornare a contare nel mondo e ridurre così l'influenza dei sovranisti. Altrimenti è il suicidio dell’Europa. E un regalo a Putin, Erdogan e compagnia.

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