Le caratteristiche che una misura di contrasto alla povertà ideale dovrebbe avere sono quelle di una sovrapposizione completa tra beneficiari ed effettivamente poveri, un tasso di adozione elevato, una significativa capacità di monitorare le irregolarità, una rapida profilazione dei beneficiari per effettuare la distinzione tra occupabili e non occupabili indirizzando i primi verso la formazione al lavoro e i secondi verso percorsi di assistenza comunque indirizzati a forme di attivazione sociale. Non dobbiamo mai dimenticare che la dignità degli “ultimi” non è ricevere un obolo, ma arricchire il proprio set di opportunità, trovare un ruolo nella società e potersi sentire utili e generativi. Sarebbe questo il miglior servizio nei confronti dei poveri, più di 2 milioni di famiglie per un totale di più di 5 milioni e mezzo di individui in Italia.
Per capire dove andrà il contrasto alla povertà in Italia, e dove sarebbe importante migliorare, è opportuno valutare alla luce di queste caratteristiche ideali la vecchia misura e capire potenzialità e rischi della nuova.
I dati a disposizione da Istat ed Inps elaborati indicano sul primo punto diversi aspetti interessanti. Il Reddito di cittadinanza ha indubitabilmente ridotto la quota di popolazione sotto la soglia di povertà (sarebbe strano fosse stato altrimenti). In particolare, ha consentito l’uscita dalla povertà di circa 450mila nuclei familiari, pari a un milione di persone, riducendo del 10% la quota di popolazione povera. Un dato che colpisce è la quota bassa di aventi diritto che ha effettivamente utilizzato la misura (il 61%). Le risposte a questo enigma possono essere sostanzialmente tre: lavoro nero nascosto, mancanza delle “competenze” minime per riuscire ad accedere alla misura (direttamente o affidandosi ad esperti o Caf), vergogna sociale.
Un altro limite emerso è la lunghezza dei tempi per la “profilazione” e la successiva presa in carico dei beneficiari. Sono passati in media molti mesi prima che i percettori fossero convocati dai servizi sociali e indirizzati verso uno dei due canali. Solo il 40% dei beneficiari indirizzati ai servizi sociali sono stati presi in carico mentre solo il 60,6% dei beneficiari indirizzati ai servizi per il lavoro hanno sottoscritto un patto per il lavoro. È emerso da questo punto di vista tutto il peso di un carico solo sulle spalle di strutture pubbliche sottodimensionate (soprattutto gli assistenti sociali). Inoltre, è indubitabile che il Reddito di cittadinanza abbia alzato il salario di riserva (ovvero il salario minimo al quale un individuo è disposto ad accettare un lavoro). Possiamo discutere se questo sia un pregio o un difetto – diventa un pregio se i salari minimi sono troppo bassi –, ma senz’altro si tratta del motivo per il quale, proprio per contrastare i limiti di questo fenomeno, il beneficio cessa, anche nella vecchia misura, quando si rifiutano offerte congrue di lavoro.
Infine, i limiti alla possibilità di accesso di cittadini stranieri, i coefficienti penalizzanti per le famiglie e l’adozione di una soglia uniforme per tutto il territorio italiano hanno di fatto penalizzato e spesso escluso dal provvedimento i residenti al Nord, le famiglie numerose e gli stranieri.
La nuova misura, l’Assegno di inclusione, migliora l’erogazione per i nuclei familiari, anche grazie all’associazione con l’assegno unico universale per i figli (ma non necessariamente l’accessibilità), per gli stranieri giacché l’Ue ha obbligato di ridurre il criterio di residenza nel nostro Paese da 10 a 5 anni. Ma ha, agli occhi di molti, il vulnus fondamentale di effettuare una distinzione – prima di ogni profilazione individuale – tra occupabili e non occupabili basata su variabili sociodemografiche (condizione familiare, presenza di minori o disabili) mantenendo per i secondi essenzialmente la vecchia misura e riducendo il beneficio per i primi a un finanziamento dei corsi di formazione per l’inserimento al lavoro.
Alla luce di queste considerazioni è del tutto evidente che il nuovo modello può guadagnare punti solo a due condizioni. La prima è che la distinzione - peraltro rivedibile - effettuata ex ante tra occupabili e non occupabili effettivamente funzioni. E qui le obiezioni al meccanismo attuale sono molte, perché ad esempio i single, classificati in genere come occupabili, sono soprattutto persone sole a causa di significative fragilità e quindi potenzialmente meno occupabili di chi vive in nuclei familiari. La seconda è che la scommessa sul reinserimento lavoro funzioni.
Sarebbe buona cosa, per il prossimo futuro, lavorare insieme, evitando le contrapposizioni ideologiche, a un modello sempre migliore che potremmo chiamare “comunità di cura”. Facendo così proprio, anche in questo ambito, l’invito alla co-programmazione tra settore pubblico e settore privato della Corte Costituzionale. Il tavolo sulla finanza sociale appena creato da Next e la Regione Friuli-Venezia-Giulia prova a fare passi avanti in questa direzione.
Alcune sperimentazioni significative indicano infatti che l’azione congiunta di pubblico, non profit e delle stesse imprese profit può essere di notevole aiuto a creare una rete solida di attori sul territorio in grado di migliorare, presa in carico, accompagnamento e impatto generativo su chi si trova in condizioni d’indigenza e di bisogno. Attori complementari e con competenze diverse che metterebbero assieme tessere importanti del mosaico come fondi antiusura, opportunità di reinserimento lavoro e garanzie sull’affitto per i beneficiari della misura. In particolare, il coinvolgimento degli attori profit - agenzie per il lavoro, ma non solo - e non profit che lavorerebbero in convenzione e sotto le regole fissate dal pubblico consentirebbe di avvicinarci all’ideale dove con colloqui bimensili si crea una relazione tra erogante e beneficiario che facilita l’individuazione di soluzioni e risposte e riduce al massimo i rischi di irregolarità e di abusi. Lavoriamo con tenacia in queste e in altre direzioni promettenti per passare dalla protesta alla proposta e alle vie d’uscita.