sabato 1 giugno 2024
Avvenire a tu per tu coi ragazzi stranieri nati e cresciuti nel nostro Paese. I desideri nascosti, l'impegno di tanti associazioni attive sui territori, la necessità di farsi sentire dalle istituzioni
Le seconde generazioni: anche noi siamo Italia, subito la cittadinanza
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In questi quattro mesi, “Avvenire” ha cercato di raccontare all’opinione pubblica italiana un mondo che voi conoscete benissimo: quello delle seconde e terze generazioni di migranti, nate e cresciute in Italia da genitori stranieri. Un mondo che vive già dentro le nostre comunità e abita le nostre scuole, le nostre piazze, i nostri campi sportivi, le nostre palestre. Un mondo che si sente già italiano, ma non lo è ancora. Per questo, nel silenzio generale, abbiamo rilanciato il tema della cittadinanza, vista come un diritto indiscutibile e insieme come un segnale di appartenenza al nostro Paese. È anche il vostro sentimento? Cosa credete sia necessario per completare questo percorso di reciproco riconoscimento? Partiamo intanto dal racconto delle vostre storie…

Stephane Rwendeye: sono arrivato in Italia nel 2015, ora sto studiando medicina a Genova, mi voglio laureare quest’anno. Coordino l’associazione “Amici della Tanzania”, ho un legame profondo con l’Africa e in particolare con il Ruanda, eppure quando mi chiedono da dove vieni, rispondo: Genova! Questo discorso non vale solo per me, ma per tanti ragazzi stranieri che neppure sanno qual è il loro Paese d’origine. Si sentono italiani, punto e basta. Mangiano italiano, vestono italiano. Sappiamo di vivere in un Paese multiculturale, eppure quando arriviamo a scuola o al lavoro, ci sentiamo diversi. Perché? Evocando una nostra campagna di un paio d’anni fa sul tema della cittadinanza, potremmo dire: “Noi siamo pronti. E voi?”

Ilias Boussetta: è vero quel che dice Stephane. Io ho preso la cittadinanza per Ius sanguinis, grazie a papà che però ha dovuto aspettare anni, essendo arrivato in Italia dal Marocco negli anni Novanta. Mio nonno è qui dal 1985. Essere riconosciuti come italiani dovrebbe essere un passaggio automatico… volevo capire cosa significava essere italiano, assaporare questo passaggio che non può essere solo burocratico… non è questione di documenti, ma di percezione.

Shabbir Hussein: il mio Paese di origine è l’Afghanistan, anche se sono cresciuto in Pakistan. Grazie all’Italia, ho trovato protezione come rifugiato politico e, attraverso il permesso di soggiorno, proprio in questi giorni inizierò l’iter per chiedere la cittadinanza italiana. Ho 29 anni, da 7 lavoro nel vostro Paese, dove ho potuto imparare la lingua. È difficile fare parte di una comunità se non si riesce a comunicare e, grazie ai percorsi con “Refugees Welcome”, sono riuscito a superare questo ostacolo. Alla mia età non ho mai potuto votare, né nel mio Paese d’origine e neppure a Roma, dove mi trovo. Quando penso ai diritti fondamentali, penso anche a questa possibilità.

Un momento del forum di Avvenire

Un momento del forum di Avvenire - Web

Chi ha vissuto sulla propria pelle l’esperienza della fuga forzata dal proprio Paese, della ricerca di una comunità partendo dal nulla e poi del difficile percorso di inserimento nelle nostre realtà, è stato senza dubbio Abdullahi Ahmed. Abdullahi Ahmed ha una storia quasi unica. Infatti è partito dalla Somalia ed è arrivato come rifugiato, poi dopo pochi anni è diventato cittadino italiano e oggi, dopo una intensa attività di impegno sociale che lo ha visto fondare GenerAzione Ponte e ideare il “Festival dell’Europa Solidale e del Mediterraneo di Ventotene” è consigliere comunale per il Partito democratico nel capoluogo piemontese. Ma in che modo è possibile un impegno culturale e politico in Italia per chi vi ha trovato asilo?

Abdullahi Ahmed: sono nato a Mogadiscio nel 1988, nel 2007 sono partito dalla mia città divisa e lacerata dalla guerra civile. Era diventato pericoloso viverci, in più sono il fratello maggiore e avevo quindi il dovere di aiutare la famiglia. Così sono partito per l’Italia da migrante forzato, fuggito per ragioni politiche dalla Somalia dove imperversavano i jihadisti, e contemporaneamente da migrante economico. Ho viaggiato dall’Etiopia al Sudan, ho attraversato il deserto e sono arrivato in Libia e da lì ho preso il barcone per raggiungere Lampedusa nel 2008. Quindi sono approdato a Settimo Torinese, che mi ha conferito la cittadinanza onoraria nel settembre del 2014. Lì ho studiato l’italiano e ho iniziato a lavorare come mediatore culturale. Nel 2016 ho ottenuto la cittadinanza.

A Torino e a Genova sono approdati, dopo due percorsi diversi, anche Alim e Presalba, provenienti rispettivamente dal Marocco e dall’Albania.

Alim Saaid: ho sempre sognato il “passaporto rosso”, come diciamo noi ragazzi delle periferie torinesi quando parliamo di cittadinanza… ma in fondo è solo un segno distintivo, mi sono sempre sentito italiano e non ho mai pensato che un titolo o un riconoscimento facesse la differenza. Siamo più italiani noi delle seconde generazioni, rispetto ai nostri genitori: a volte neppure in casa sappiamo se dobbiamo parlare italiano o marocchino… I pregiudizi? La prima barriera è il colore della pelle, la seconda rischia di essere la lingua. Poi c’è la burocrazia: la mia pratica è stata smarrita per tre anni, ce ne siamo accorti solo dopo, quando ci siamo rivolti a Save the Children che ci ha aiutati…

Presalba Lala: mi ritrovo tanto nel tuo discorso, noi facciamo da “ponte” con i nostri genitori. Ventiquattro anni fa, giunsi dall’Albania sulle coste pugliesi e poi da lì andammo a Genova, dove c’era mio nonno dal ’94. Era una notte bruttissima di fine ottobre, ma non avevamo alternative: il ricongiungimento familiare sarebbe costato molto di più che arrivare dal mare. Quella cosa succede ancora oggi, non è cambiato assolutamente nulla. Il mio primo ricordo è dentro una scuola materna, non capivo niente, ma quelle aule sono state la mia prima palestra di vita, come per milioni di persone nella mia condizione di allora. Sono nata il 2 giugno, fino a una certa età pensavo che l’Italia facesse festa in quella data perché era il mio compleanno. Poi, ho scoperto che la Costituzione non è solo un pezzo di carta: io me la porto dentro, da quando un partigiano me l’ha firmata.

Avete evocato l’importanza del “passaporto rosso”, come documento-chiave, come traguardo del percorso che state facendo. Quanto conta averlo?

Abdullahi Ahmed: molto. In famiglia, ad esempio, mia figlia l’ha avuto alla nascita, per il principio dello Ius sanguinis, mentre mia moglie, nonostante sia sposata con un cittadino italiano da oltre due anni, non ha ancora la cittadinanza. Ma ho vissuto anche l’esperienza opposta, quella di vedermi discriminato proprio perché italiano. È successo alla fine di febbraio 2020, quando per la prima volta ho avuto la possibilità di tornare a Mogadiscio a rivedere la mia famiglia. In quei giorni stava scoppiando la pandemia e la compagnia aerea annullò il volo. L’Italia era il focolaio dell’infezione e mentre gli altri passeggeri hanno avuto la possibilità di prendere altri voli, a me è stato detto che in quanto italiano e residente in Italia non mi avrebbero fatto entrare. Per la prima volta il potente “passaporto rosso” non ha funzionato. Per quanto riguarda, invece, l’iter necessario a chi come me è stato un rifugiato politico, sulla carta è più breve: dopo aver conseguito lo status devi avere, oltre al certificato penale immacolato, cinque anni di residenza continuativa e il reddito minimo da lavoro. Ho lavorato come mediatore culturale e mi sono impegnato sui temi dell'integrazione e dell'accesso alla cittadinanza, di politiche giovanili, periferie e di inclusione. Ho incontrato più di 100mila studenti con lo scopo di promuovere campagne finalizzate ad aumentare la sensibilità culturale, sociale e politica sul fenomeno migratorio. Credo che abbiamo il compito di rimuovere ostacoli. Perciò ho fondato GenerAzione Ponte e per il nostro impegno la Commissione Europea nel 2020 ci ha assegnato il Premio Altiero Spinelli. Sono poi stato eletto nel Consiglio Comunale di Torino nel 2021 e nominato presidente della Commissione speciale di contrasto a intolleranza e razzismo. Un grande onore. Abbiamo appena concluso ad esempio con tutti i consiglieri una visita ai templi del quartiere multietnico di San Salvario per favorire il dialogo interreligioso. Davanti alle questioni concrete le ideologie si mettono più facilmente da parte.

Presalba Lala: noi ci sentiamo davvero parte di una comunità più grande, senza distinzioni... sentite l’accento genovese mentre parlo? È come se io fossi un albero con radici albanesi, ma cresciuta e fiorita a Genova. Non rinnego le mie origini, ma sono cresciuta qua e ho avuto la fortuna di avere insegnanti favolosi... non è stata una cosa da tutti, ma questo mi ha permesso di crescere con maggiore consapevolezza. Nelle nostre comunità, ci sono percezioni diverse, è inutile negarlo. Se chiedete a mio fratello se si sente più italiano o più albanese, vi risponderà che è più albanese. Per me non è la stessa cosa. Penso solo che l’Italia dovrebbe capitalizzare di più il lavoro fatto con noi seconde generazioni, invece ci si perde su criteri abbastanza assurdi come la continuità di residenza o di reddito. Quando ho fatto il rinnovo del permesso di soggiorno, mi è stato chiesto se avevo mai fatto il rinnovo di residenza abituale... ma perché devo confermare di vivere nella casa in cui ho sempre vissuto? Perché devo aspettare ancora un anno forse, prima di diventare italiana?

Per chi si occupa quotidianamente di immigrazione, è grande il senso di frustrazione nel dover tutti i giorni ripartire da
capo attivando processi di inclusione che richiedono giri immensi di tempo e di partecipazione. Nel 2022 l’Italia è stato il Paese europeo che ha concesso più cittadinanze a persone straniere, ben 213.716, facendo diventare nostri concittadini persone in arrivo dall’Albania (38mila) dal Marocco (31mila) e dalla Romania (16mila). Il punto è che, per ottenere questo riconoscimento, sono serviti in media 15-16 anni tra requisiti richiesti e iter legale necessario, arrivando di fatto a
regolarizzare migranti arrivati tra gli anni Novanta e il primo decennio del Duemila. Perché parlare di questo tema resta così difficile e impopolare?

Sara Consolato: è l’idea stessa di cittadinanza a rimandare a uno sviluppo di senso, all’appartenenza a una comunità, all’accettazione di un perimetro di regole dentro cui decidere di rimanere. Invece noi chiediamo a questi ragazzi di dimostrare di essere alla nostra altezza. E perché? Se vogliamo promuovere cittadinanza, dobbiamo dire no all’idea che essa sia legata al concetto di merito. E’ un paradigma da capovolgere quello per cui si dà questo titolo solo a chi si rende protagonista di qualcosa di straordinario… c’è un diritto a essere italiani e il fatto di provenire dall’estero non può essere una colpa da emendare. Altrimenti si manda subito un messaggio sbagliato alle nuove generazioni.

Livia Ortensi: la legge sulla cittadinanza è del 1992 ed era pensata per un mondo completamente diverso. Era concepita per chi dall’Italia sarebbe dovuto partire, non per chi vi sarebbe successivamente approdato. E poi molte criticità che abbiamo ascoltato nei discorsi delle seconde generazioni, sono criticità che interessano tout court questo Paese: si investe poco sui giovani, pochissimo sulla scuola, ancor di meno su ragazzi con background migratorio. Sono d’accordo: bisogna evitare discorsi legati al merito e, aggiungo, all’utilitarismo. Si sta facendo passare l’idea che è necessario accettare la migrazione perché ci serve, perché abbiamo bisogno di forza lavoro, altrimenti non riusciremmo a pagare le pensioni. Capisco la logica del ragionamento, ma si tratta di una logica pericolosa. Questo è un Paese non ancora maturo, anziano, un po’ boomer. Sulla legge c’è un negoziato politico complicatissimo da fare, perché chi tocca questi temi muore, ma andando avanti con gli anni ci renderemo conto della società multiculturale e dovremo prendere atto che la realtà è cambiata.

Giusy D’Alconzo: uno studente su dieci ha origine straniera e, in quel 10%, due su tre sono ragazzi nati in Italia. Come Save the Children abbiamo lanciato una petizione che ha raccolto in poche settimane centinaia di miglia di firme. Giornali come “Avvenire” fanno una straordinaria operazione di ascolto per dire che l’Italia è già cambiata, che la metamorfosi è in atto ed è necessario che la politica se ne accorga al più presto.

Presalba Lala: sono d’accordo con chi dice che nel dibattito pubblico non compariamo, noi e le tante associazioni che chiedono cittadinanza e rappresentanza per i ragazzi stranieri. Sono un po’ meno convinta del fatto che noi rappresentiamo esperienze di nicchia, magari un po’ avanzate, rispetto a quel che succede nelle nostre comunità straniere di riferimento. È vero che corriamo il rischio dello scoraggiamento. Con l’ultimo cambio di governo, ci siamo un po’ fermati percependo quasi che le nostre richieste non erano più nell’agenda del Parlamento.

Abdullahi Ahmed: i Comuni possono fare la loro parte, a partire da un maggior investimento di risorse umane negli uffici anagrafe, dove chi porta la propria domanda deve incontrare personale preparato. Quanto al quadro politico, è vero che brucia ancora la sconfitta del 2017, con il governo Gentiloni, ma adesso lo scenario è cambiato e quando si parla di Ius Culturae si registra maggiore disponibilità da forze politiche dioverse, come i Cinque Stelle o Forza Italia.

Alim, Stephane, Ilias e Shabbir: se dovessimo usare alcune parole per spiegare cosa vuol dire per noi essere italiani, diremmo innanzitutto “casa”. Ci sentiamo a casa in Italia, nonostante i problemi. Avere un tetto e uno spazio in cui stare è stata anche la nostra prima aspirazione. Poi diremmo “lingua”: poter capire e parlare è stata una conquista. Noi sogniamo in italiano e nelle nostre lingue d’origine. Quindi la “cucina”, certo. Da ultimo, “cultura e libertà”. Essere italiani significa amare la bellezza. E soprattutto amare la libertà.




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