Il cantante e attore afroitaliano Tommy Kuti - (foto di Karim El Maktafi)
Tommy Kuti è un pioniere in tutto quello che fa, ed è sempre un passo avanti anche in quello che dice. Forse per questo non ha milioni di streaming, ma è il principe degli artisti di nicchia sulla scena nazionale dai tempi del collettivo afro “Mancamelanina”, fino all’ultimo singolo appena pubblicato, Piazza Napoli. Tommy, voce possente e fisico da giovane Barry White, è il primo afroitaliano che si è messo a fare afrobeats nella lingua di Dante, ed è anche il primo cantante italiano di seconda generazione ad aver firmato un contratto con una major, l’Universal, nel 2016. Due anni dopo pubblica il suo primo album Italiano Vero che come dicono i millennials ha “spaccato” con il singolo #Afroitaliano. Il 35enne Tommy Kuti, dunque solo per brevità lo definiamo rapper - con due album all’attivo, il secondo è Summer of love (2023) - ma è molto altro ancora il ragazzo che in Italia c’è arrivato a due anni, dalla Nigeria. Con la sua famiglia è cresciuto a Castiglione delle Stiviere (Mantova) dove ha cominciato a fare musica e si è diplomato al liceo.
Ma la laurea poi è andato a prendersela a Cambridge, come mai?
«Perché quella è l’Università dei giovani nigeriani, e come tutti loro ho sentito la pressione da parte dei genitori ad intraprendere un percorso di studio. Poi molti dei miei amici e parenti si sono trasferiti in Inghilterra che è un po’ una seconda casa, dove mi sono laureato in Scienze della Comunicazione. Allora pensavo che studiare musica per farne una professione fosse una scelta un po’ troppo ambiziosa. Col senno di poi, magari andare al conservatorio o fare un corso di produzione musicale non sarebbe stata una cattiva idea».
Dopo la laurea lascia Cambridge e rivola in Italia, a Brescia, un passo indietro anche artisticamente parlando?
«No, anzi. Brescia è una città “afro”, lì un africano si sente meno solo che nel resto del nostro Paese. Quando mi sono trasferito, nel 2014, mi sembrava di vivere nel Bronx dove le culture si mischiano e si creano forti connessioni, sociali e culturali. Certi amici bresciani parlano nigeriano, senegalese, camerunese... Ora vivo a Milano e anche se è una metropoli multiculturale posso assicurare che non ci si “mischia” mai veramente come a Brescia».
Nel suo singolo Milano Be Like, con il feat della cantante eritrea Sina Tekle, infatti le “canta” alla sua nuova città.
«Canto la Milano metropolitana con le sue contraddizioni: città della moda, del design, del lavoro ma anche dei contrasti forti, delle ombre sotto le luci di San Siro e dei tanti pregiudizi che sono barriere non ancora abbattute. Io dico sempre: a Milano sei in compagnia per finta, ma sei solo veramente. È una sensazione purtroppo condivisa da tanti».
La prima grande “condivisione” rap in carriera l’ha avuta con Fabri Fibra.
«Lui è il vero papà del rap italiano. Fabri Fibra ha aperto un universo, anche commercialmente parlando, che prima non c’era nel rap italiano. Ora è banale che ci siano i megabrand, ma nel 2016 quando abbiamo collaborato al brano Su le mani lo scenario era assai diverso di adesso».
Adesso sembra di vivere nella “Repubblica fondata dai rapper”.
«Vero, ma bisogna stare attenti a non scimmiottare la vera cultura rap, perché quella è afroamericana. In questo momento storico il rap italiano spesso copia il compitino e non cambia neppure le parole. In questa maniera qualcuno sarà anche diventato ricco e famoso, ma sta ridicolizzando un’intera cultura d’oltreoceano che nasce dal disagio e dalla necessità del riscatto sociale. Colpa anche del pubblico, quello italiano non si fa troppe domande pensa che se una canzone finisce in tele o in playlist è perché è di qualità, non vuole sapere da dove sia stato copiato quel sound. Magari dipende anche dal fatto che quel pubblico ha vissuto anestetizzato davanti a certe tv per oltre vent’anni di berlusconismo».
Nel 2019 ha pubblicato il libro dal titolo provoctorio: Ci rido sopra. Crescere con la pelle nera nell'Italia di Salvini (Rizzoli). Era un grido contro il razzismo subìto sulla sua pelle?
«Purtroppo sì, magari, quanto a violenze mi è andata meglio di altri. Viviamo in un Paese dove la multiculturalità è solo di facciata. La mia quotidianità è migliorata rispetto ad anni fa, mi dicono che sono bravo musicalmente, le ragazze e i fan mi adorano. Ma so che tutto dipende dalla prospettiva, se fossi rimasto nel mio paesino di provincia a lavorare a 1000 euro al mese come operaio, probabilmente dovrei fare i conti tutti i giorni con il padrone della fabbrica che mi chiama dicendomi: “Negher vieni un po’ qua”… In Italia le istituzioni non si impegnano, siamo ancora fermi al problema della migrazione, eppure siamo ormai alla terza generazione di ragazzi nati e cresciuti qua. Com’è che non riusciamo a fare questo switch?
Essere un artista affermato “afroitaliano o afrodiscendente”, quale si definisce, aiuta a farlo questo switch?
«Non sempre, perché ancora quando faccio un provino per un film mi offrono sempre i soliti ruoli: migrante, spacciatore, gangster... Questo va al di là del razzismo, sono gli effetti di una narrazione quotidiana che si nutre di stereotipi e di pericolosi luoghi comuni. Ringrazio a tal proposito Germano Lanzoni, il “Milanese imbruttito”, che nel suo ultimo film, Ricomincio da taaac, mi ha chiamato per la parte di un comune vicino di casa nella cascina dove va a vivere».
Vive d’arte e soprattutto di musica, alla quale però dà un valore estremamente civile.
«Con la mia musica in questi anni ho raccontato essenzialmente me stesso. Se poi qualcuno ci ha visto dell’impegno civile è anche perché è accaduto che una certa parte politica ha trovato il mio messaggio adatto alla sua visione. Io dico però che le strumentalizzazioni sono pericolose e andrebbero evitate. La strumentalizzazione porta a parlare ogni giorno di “sbarchi sì” o “sbarchi no”, e questo tipo di dibattito sterile rischia di far passare l’Italia per un Paese culturalmente e civilmente arretrato».
La sua risposta multiculturale si chiama “Afrowave”. Ma di cosa si tratta?
«È un format itinerante, una volta al mese portiamo nei locali italiani l’afrobeats, la wave che sta dominando le classifiche di tutto il mondo. Vengono in tanti, bianchi, gialli, neri, e facciamo ballare tutti e questa per me è la vera inclusione».
Altri luoghi particolari in cui è entrata la sua musica?
«Ho fatto un progetto nel carcere di Verona e ho scoperto quanto la musica abbia un potere assolutamente benefico nei luoghi di detenzione. Per questo sarebbe interessante portarla anche in realtà minorili, come il Beccaria qui a Milano. Una trentina di detenuti a Verona ora si divertono a fare rap e a scrivere testi. Ah, nelle aule del carcere ho fatto un’altra scoperta: l’unico giornale che entra e che i detenuti leggono con molto interesse è Avvenire».
E' un elogio da rapper e artista di ispirazione cattolica?
«In Nigeria ci insegnano che la spiritualità si affranca alle varie religioni che vai a vivere. Nella mia famiglia convivono tranquillamente cristiani che poi sono diventati musulmani per ritornare a credere nel cristianesimo. Perciò il mio rapporto con Dio fin da bambino si è basato sulla curiosità e il desiderio di conoscenza iniziato con la lettura delle enciclopedie dedicate alle religioni. Credo che il problema di ogni uomo sia quello di dare un senso all’inspiegabile… Io penso di aver trovato quel senso che sta nell’equilibrio tra le azioni che compi e le conseguenze che ne derivano. Questo è il mio credo».
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