Non è dato sapere se alla fine il governo di Mario Draghi sarebbe riuscito a mettere mano ai controversi dossier delle pensioni e del salario minimo. Sulla previdenza si era aperto negli ultimi mesi un difficile tavolo di confronto con le parti sociali con l’obiettivo di 'addolcire' la riforma Fornero. Mentre sui redditi era pronta una proposta di mediazione avanzata dal ministro Andrea Orlando per estendere a tutti i lavoratori di ciascun comparto i livelli salariali dei contratti più rappresentativi.
Forse l’eterogeneità politica della vecchia maggioranza e lo stretto sentiero del bilancio avrebbe impedito di arrivare a una soluzione condivisa. Chissà. Ma certo l’improvvisa caduta del governo ha chiuso il discorso e ora la parola passa all’esecutivo che si insedierà dopo il 25 settembre. Con il rischio che sul fronte previdenziale il 2023, dopo la stagione di 'Quota 100' e l’intermezzo- flop di 'Quota 102' (che scade a fine anno), si apra con un ritorno alle sole regole di uscita sancite dalla riforma varata in tutta emergenza ai tempi della crisi nel 2012: con uno 'scalone' che non consentirebbe di lasciare il lavoro prima dei 67 anni di età oppure con 42 anni e 10 mesi di contributi alle spalle (un anno in meno per le donne).
Anche ammesso, infatti, che il nuovo governo abbia intenzione di rimettere mano alle regole di uscita, l’esiguità dei tempi a disposizione, con un insediamento previsto non prima di novembre e la manovra di bilancio da preparare in pochi giorni, difficilmente permetteranno un intervento strutturale sulla previdenza. Forse qualche ritocco sì, ma è difficile che si vada oltre, dato che il tema ha una forte ricaduta sui conti pubblici, a maggior ragione in un contesto di grave incertezza economica e mentre sull’Europa soffiano venti di guerra e di recessione. Quanto ai salari, se a prevalere sarà la coalizione data per vincente nei sondaggi, il centrodestra, è molto probabile che il salario minimo legale non si farà, anche se in qualche misura nei prossimi anni l’Italia dovrà recepire la direttiva Ue. Sulle pensioni a spingere per nuove regole è soprattutto Matteo Salvini, come già in occasione del governo gialloverde del 2018.
Oggi la bandiera della Lega è 'quota 41', ovvero la possibilità di lasciare il lavoro con 41 anni di contributi a prescindere dall’età anagrafica. Una possibilità concessa ora solo a chi svolge mansioni usuranti e ai lavoratori precoci. L’estensione è ben vista anche dai sindacati e dalle forze a sinistra del Pd. Secondo l’Inps, generalizzare questa via di pensionamento costerebbe però 4 miliardi il primo anno e 70 miliardi in dieci anni. Forse per questo nel programma comune del centrodestra il numero 41 non appare: si parla più vagamente di 'flessibilità in uscita dal mondo del lavoro e accesso alla pensione, favorendo il ricambio generazionale'. Anche il Pd si schiera per una 'maggiore flessibilità', con pensionamenti a partire dai 63 anni da 'realizzare nell’attuale regime contributivo' - che comporta un taglio dell’importo delle pensione - 'in coerenza con l’equilibrio del sistema'.
E propone di rendere strutturali l’Ape sociale e Opzione donna. Proposte, queste, appoggiate anche dal M5s che punta inoltre ad ampliare in maniera significativa la platea dei lavori usuranti e a offrire il riscatto gratuito degli anni delle laurea. Il Terzo polo di Azione e Italia Viva sulle pensioni glissa. Segno che, in sostanza, si ritiene inevitabile restare nell’ambito della legge Fornero. Di sicuro però i sindacati, che chiedono una maggiore libertà di scelta nel pensionamento e senza eccessive penalizzazioni dell’assegno, torneranno subito alla carica, qualunque sarà il nuovo governo. Da registrare infine l’intenzione di Silvio Berlusconi di portare tutte le pensioni a un minimo di 1.000 euro.
Una promessa valutata in una ventina di miliardi l’anno. Sul fronte lavoro il dato di fondo da considerare è che l’Italia ha avuto negli ultimi 30 anni il più basso incremento dei salari reali tra tutti i Paesi avanzati. Situazione pesante ma gestibile finché l’inflazione è stato prossima allo zero. Drammatica con i prezzi al galoppo di oggi e l’inflazione vicina alle due cifre. Molte le proposte dei partiti su un tema che, più di altri, tende a riproporre la dicotomia tradizionale destra-sinistra. Un punto di contatto di trova sulla necessità di ridurre il carico fiscale e contributivo che grava sui salari.
Ma le ricette sono diverse. Il centrodestra pensa a un taglio del cuneo che vada a beneficio tanto delle imprese che dei lavoratori all’interno di una generale riduzione della pressione fiscale attraverso il sistema della Flat tax - a cominciare dai lavoratori autonomi e dagli aumenti contrattuali dei dipendenti - e del principio «chi più assume meno paga». Ma l’operazione 'meno tasse', se attuata, metterebbe sotto pressione i conti pubblici e dovrà confrontarsi con i nuovi equilibri europei sui vicoli di bilancio, a meno di non ridurre la spesa pubblica e quella sociale. Prospettiva che contrasta però con gli interventi annunciati sulle pensioni. Nell’immediato si punta comunque a tutelare il «potere d’acquisto di famiglie, lavoratori e pensionati» messo a rischio da crisi e inflazione e a intervenire sull’Iva per calmierare i prezzi dei prodotti di prima necessità. Il programma ripropone anche l’estensione dell’uso dei voucher lavoro, specialmente nel turismo e in agricoltura, uno strumento che era stato fortemente ridimensionato pochi anni fa dopo le polemiche sul loro eccessivo utilizzo. Voucher rilanciati anche dal Terzo polo per contrastare, si afferma, il precariato di false partite Iva e falsi tirocini, tagliando invece i mini contratti.
Anche gli altri partiti dal Pd, al M5s, ad Azione-Iv puntano in vario modo a una riduzione del cuneo sui salari, a beneficio soprattutto dei lavoratori. La proposta dem è di dare una mensilità in più ai dipendenti tagliando stabilmente i contributi previdenziali. Una misura anche questa onerosa per i conti pubblici, anche se più mirata: il costo sarebbe intorno ai 12 miliardi, da finanziare, assicurano i dem, con i proventi della lotta all’evasione. Il Terzo polo propone la detassazione completa dei premi di produttività. Gli interventi fiscali hanno l’obiettivo di aumentare prevalentemente il netto in busta paga. La proposta del salario minimo comporta invece anche maggiori uscite per le imprese, con un aumento delle retribuzioni di mercato. Si tratta di due 'filosofie' diverse: la prima punta a contenere il costo del lavoro come leva di sviluppo occupazionale, una ricetta già sperimentata negli ultimi decenni, la seconda punta a una maggiore equità ma dovrebbe servire anche a orientare le aziende a una maggiore produttività.
A sostenere la seconda strada sono il Pd e il M5s e in parte anche il Terzo polo. I dem puntano a dare valore erga omnesal trattamento previsto dai contratti più rappresentativi nei diversi settori, con 'una soglia minima affidata alle parti sociali'. Azione-Iv chiede anche una legge sulla rappresentanza per combattere i 'contratti-pirata'. Il Movimento rilancia invece il minimo salariale per tutti fissato dalla legge, indicando la soglia dei 9 l’ora lordi. Niente paga minima invece nel programma del centrodestra. Pentastellati e dem insistono poi anche sul contrasto del precariato. I primi affermano di voler rafforzare il 'decreto Dignità', i secondi puntano sull’esempio spagnolo che scoraggia i contratti a tempo determinato tanto sul piano normativo che contributivo.