La dichiarazione formale della guerra politico-giudiziaria che negli ultimi venti anni ha coinvolto tutti gli italiani adulti (volenti o nolenti, neutrali o arruolati, per convinzione o per interesse, per garantismo sincero o per cavillosità pelosa, per becero giustizialismo o per autentico senso di giustizia) porta la data del 22 novembre 1994. Quel giorno, un martedì, il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi si vede recapitare a Napoli, dove sta presiedendo un vertice dell’Onu sulla criminalità, un invito a comparire per un’inchiesta su alcune tangenti pagate dal gruppo Fininvest a esponenti della Guardia di Finanza.Il mittente era il pool Mani Pulite di Milano e – come spesso accadeva ormai da oltre due anni, ovvero dall’inizio dell’era di Tangentopoli – il provvedimento era stato anticipato il giorno precedente dal più grande quotidiano italiano. Da quelle accuse il Cavaliere sarà assolto con formula piena («per non aver commesso il fatto» e, in relazione a un solo capo d’imputazione, per insufficienza probatoria) nel gennaio del 2001. Nel frattempo, però, altre imputazioni, accuse, scontri, polemiche, invettive e proposte di legge si erano stratificate e altre ancora se ne sarebbero aggiunte negli anni a venire. Fino a ieri, quando il Senato della Repubblica ha di fatto messo fine all’avventura parlamentare di Berlusconi. Quella politica, assicurano lui e i suoi fedelissimi, continuerà. Quella giudiziaria, poi, è ancora fitta di capitoli da chiudere. Insomma, non finisce qui. Si proseguirà sulle macerie fumanti del bipolarismo furioso e, purtroppo, di una giustizia prossima alla paralisi che, anche (non soltanto) a causa di questa guerra, attende ancora di essere profondamente riformata.
Finora il fondatore di Forza Italia ha dovuto affrontare 34 procedimenti penali e 40 capi d’imputazione a vario titolo, collezionando 14 archiviazioni, 10 assoluzioni (2 delle quali per intervenuta depenalizzazione del reato, il falso in bilancio per le vicende Sme e All Iberian, una delle leggi ad personam che gli avversari rinfacciano al Cavaliere), 5 prescrizioni, un’amnistia, un proscioglimento e 3 condanne. Queste ultime sono tutte del 2013: quella definitiva a 4 anni di reclusione, di cui 3 coperti da indulto, per i diritti tv Mediaset è del primo agosto e gli è costata la decadenza dalla carica di senatore; quella in primo grado a 7 anni (6 per concussione per costrizione, uno per favoreggiamento della prostituzione minorile) per il processo Ruby è del 24 giugno; quella, sempre in primo grado (ma destinata alla precrizione), a un anno di reclusione per concorso in rivelazione di segreto d’ufficio relativamente all’intercettazione illegale della telefonata Fassino-Consorte sul caso Bnl è dell’8 marzo. Questi ultimi 2 fanno parte dei 4 procedimenti ancora in corso a carico di Berlusconi, ai quali è probabile si aggiunga una nuova inchiesta per corruzione per la vicenda Ruby. A completare l’elenco, l’archiviazione del tribunale di Madrid per la vicenda "Telecinco" nel 2008, l’amnistia del 1990 per la falsa testimonianza contestatagli circa la sua affiliazione alla Loggia P2 e la stangata in sede civile che nel settembre scorso ha condannato la Fininvest a risarcire 494 milioni di euro al gruppo Cir della famiglia De Benedetti per il Lodo Mondadori.In mezzo, come detto, c’è un pezzo di storia del nostro Paese, fatta di verbali giudiziari, intercettazioni, atti parlamentari, comizi, interviste, proteste formali (e talvolta plateali) dell’Associazione nazionale magistrati. E, come in tutte le guerre che si rispettino, ci sono molte battaglie da raccontare. Non gloriose, per la verità, perché quasi tutte troppo simili a risse.
Ma prima occorre tornare, brevemente, al casus belli del 1994, che è anche l’anno in cui Silvio Berlusconi sorprese tutti e, con un partito inventato a tavolino, vinse le elezioni politiche sbaragliando la concorrenza della «gioiosa macchina da guerra» progressista guidata dal leader post-comunista Achille Occhetto. Prima di allora, a parte qualche avvisaglia a mezzo stampa, non si ricordano particolari problemi tra il Cavaliere e la magistratura. Anzi.
Nel ’93, quando era ancora ufficialmente fuori dalla politica, Berlusconi dichiarò il suo "tifo" per Gianfranco Fini, avversario di Francesco Rutelli alle comunali di Roma. E Fini, allora, era il leader del Msi che sfilava in corteo al grido «l’Italia onesta in piazza con la destra» (agitando guanti bianchi in omaggio a Mani Pulite) e i cui giovani manifestavano davanti a Montecitorio indossando magliette con la scritta: «Arrendetevi! Siete circondati».
Nel frattempo, le televisioni berlusconiane riportavano con ampiezza e dovizia di particolari le cronache dal palazzo di giustizia di Milano, quartier generale di quel Pool Mani Pulite di Borrelli, D’Ambrosio, Di Pietro, Davigo e Colombo e del gip Ghitti che, di lì a poco, avrebbero letteralmente polverizzato un sistema partitico in buona parte dedito alla corruzione e al finanziamento illegale. Avvisi di garanzia, interrogatori, arresti, perquisizioni, rinvii a giudizio e processi: nulla sfuggiva alle telecamere e ai taccuini dei bravi cronisti Fininvest, ai quali Antonio Di Pietro deve un bel po’ della popolarità di cui a lungo ha goduto in seguito.Lo stesso Di Pietro che sarebbe presto diventato uno dei nemici giurati di Berlusconi. Lo stesso che fu udito pronunciare dal suo capo Borrelli la frase «io quello lo sfascio», proprio in relazione a un interrogatorio del Cavaliere. Lo stesso che, lasciata la toga, alle elezioni suppletive del ’97 fu candidato ed eletto senatore per l’Ulivo nel collegio "rosso" del Mugello.Ecco, la nascita di Forza Italia e l’ingresso in politica, nel campo avversario, del più ruvido ed esuberante tra i pm di Mani Pulite sono la rappresentazione simbolica dell’intreccio tra politica e giustizia che si è formato in quegli anni e che ha poi, gradualmente, avviluppato il Paese fino quasi a immobilizzarlo.Si diceva delle battaglie di questo ventennio, talmente tante che sarebbe impossibile citarle tutte. La prima porta una data addirittura precedente all’invito a comparire di Napoli: è il luglio del 1994 quando il Consiglio dei ministri del primo governo Berlusconi approva il decreto Biondi, subito etichettato come «salva ladri» dalle opposizioni; il Pool Mani Pulite arriva ad auto-sciogliersi per protesta, poi Lega e An fanno decadere il testo in Parlamento.Altri scontri furiosi seguiranno. Sulla revisione del reato di falso in bilancio nel 2001/2002, che comunque andrà in porto e di cui il Berlusconi imputato, come visto, beneficerà. Nel 2002 sulla legge Cirami in materia di legittimo sospetto, alla quale tuttavia non seguirà il trasferimento da Milano e Brescia del fascicolo Imi-Sir. Nel 2003 sul Lodo Schifani, che sospende i procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato: Berlusconi è presidente del Consiglio, perciò i processi Sme e Mondadori si fermano fino a quando, l’anno dopo, la Corte costituzionale dichiarerà illegittimo il Lodo. Una normativa molto simile, il Lodo Alfano, sarà riproposta dal governo Berlusconi IV nel 2008, ma ugualmente dichiarata incostituzionale nel 2009. Una sua seconda versione, sotto forma di ddl costituzionale, non andrà in porto, così come le leggi sul "processo breve" (2009) e sulla limitazione delle intercettazioni telefoniche e ambientali.Nel 2004 era andato in scena lo scontro sul cosiddetto emendamento salva-Previti in materia di recidiva. E sullo stesso tema, ma soprattutto sulla riduzione dei termini di prescrizione dei reati, la legge ex-Cirielli («ex» perché il suo stesso promotore, già esponente di An e Pdl, oggi in Fratelli d’Italia, la disconobbe in quanto «snaturata» dagli emendamenti rispetto allo spirito originario) infuocò il dibattito e fu approvata nel 2005.Il 10 marzo del 2010, invece, la maggioranza di centrodestra modifica l’istituto giuridico del legittimo impedimento, rendendolo quasi automatico per 18 mesi a favore del premier e dei ministri. Ma anche questa normativa viene ampiamente "depotenziata" da un intervento della Corte costituzionale, sollecitata proprio proprio nell’ambito di un processo riguardante Berlusconi, il caso Mills.