L’Italia si contende da anni con la Germania il primato della produzione di farmaci in Europa. L’ultima volta hanno “vinto” i tedeschi, ma di poco: 32,9 miliardi la loro produzione farmaceutica e 32,2 miliardi italiani la nostra. La Francia, terza, si è fermata a 23,2 miliardi. Eppure nella catena di produzione dei vaccini contro il Covid-19 già pronti o quasi l’industria farmaceutica italiana ha al momento un ruolo marginale. L’unica fabbrica coinvolta è quella di Anagni del gruppo americano Catalent, che nel frusinate si occupa di mettere nelle fiale i vaccini che arrivano dagli stabilimenti produttivi di AstraZeneca. Il processo di “infialatura” del farmaco è delicato e importante ma il cuore della produzione del vaccino avviene prima. E altrove.
Il vaccino è un prodotto biotecnologico estremamente complesso la cui produzione avviene in più fasi. Per un vaccino “tradizionale” come quello di AstraZeneca la fase più delicata è quella della produzione dell’antigene: all’interno di recipienti asettici chiamati bioreattori le cellule ospiti infettate dal virus crescono e proliferano mentre generano la molecola che contrasta il virus. L’antigene prodotto viene poi mescolato con altri componenti per aumentare la risposta del sistema immunitario e assicurare la stabilità del farmaco. Il tutto sarà poi versato nelle fiale, confezionato e consegnato a chi deve iniettarlo alla popolazione. I vaccini di Pfizer-BioNTech e Moderna sono ancora più complessi e delicati, perché sono basati sulla tecnologia mRNA, che non era mai stata impiegata prima per un vaccino destinato agli esseri umani. Il 70% del tempo di produzione di un vaccino, spiega l’Ipma, è dedicato alle procedure di controllo della qualità del farmaco.
La qualità di tutta la catena è l’aspetto fondamentale: non è scontato che dal processo di produzione emerga un vaccino efficace. Questo, almeno secondo quanto spiegato da Pascal Soriot, direttore esecutivo di AstraZeneca, è quello che è successo in uno dei due impianti a cui il gruppo anglo-svedese ha affidato la produzione del vaccino. La fabbrica “problematica” è quella belga della società francese Novasep, mentre va meglio la produzione in quella olandese del gruppo Halix. «È solo sfortuna – ha assicurato Soriot –. Nel migliore degli impianti si produce il triplo del vaccino che nel peggiore».
Sia Novasep che Halix sono società che lavorano per conto terzi: cioè producono farmaci sviluppati da altre aziende. Tutti i vaccini anti-Covid19 prodotti in Europa sono conto terzi.
Il principio attivo del vaccino di Moderna è prodotto dalla società svizzera Lonza a Visp, nel Canton Vallese, mentre i lotti sono realizzati in Spagna da Rovi Pharma.
Il vaccino BioNTech è prodotto in Germania in due impianti, uno della stessa BioNTech e un altro di Rentschler. Presto la produzione si allargherà nella fabbrica che la stessa BioNTech ha comprato da Novartis a Marburg e, in base all’accordo annunciato il 27 gennaio, anche il gigante francese Sanofi, un po’ in ritardo sullo sviluppo del suo vaccino assieme a Gsk, metterà a disposizione di BioNTech e Pfizer il suo stabilimento di Francoforte per produrre 125 milioni di dosi di vaccino in Europa a partire dall’estate del 2021.
Anche nella produzione conto terzi l’Italia è leader in Europa. Nasce da qui l’idea di proporre anche nostri stabilimenti per allargare la capacità produttiva del vaccino. Sembra andare in questa direzione l’intervento del viceministro alla Sanità Pierpaolo Sileri, che domenica scorsa in televisione ha detto che «per ovviare ai problemi sulla linea produttiva servirebbe un accordo quadro a livello europeo che consentisse di operare per conto terzi, realizzando una sinergia tra le compagnie oggi operative e altre realtà attualmente non impegnate nella produzione dei vaccini. Questo potrebbe aumentare in maniera incisiva la velocità di produzione».
In teoria è possibile, in concreto sarà molto difficile. In effetti l’Italia non è ad oggi un grande produttore di vaccini. Purtroppo non abbondano i dati pubblici sull’argomento, ma secondo l’ultimo censimento dell’associazione di settore Vaccine Europe dei 23 impianti coinvolti nella produzione europea di vaccini solo due sono in Italia: uno è lo stabilimento Catalent di Anagni, che come detto si occupa di infialatura, l’altro è lo stabilimento di Gsk a Rosia, nel senese. Questo è un impianto di eccellenza mondiale che produce i vaccini contro tutti i principali ceppi del meningococco. A dicembre Gsk ha annunciato un ulteriore investimento di 18 milioni di euro su Rosia per ammodernare l’impianto, che contribuirà anche alla produzione del vaccino anti-Covid Sanofi-Gsk (in particolare sarà uno degli impianti che si occuperà di «infialare e confezionare l’adiuvante pandemico»). Ma se tutto andrà bene in fase di sperimentazione il farmaco Sanofi-Gsk sarà pronto alla fine di quest’anno.
Insomma: al momento l’Italia non ha fabbriche di vaccini pronte a dedicarsi alla lotta al Covid-19. «I vaccini sono prodotti complessi che richiedono intensa attività di controllo. Possono farli aziende con reparti asettici e sterili e macchinari adeguati. L’Italia ha le competenze e le strutture che possono essere adeguate per produrli. Se si vuole espandere la capacità produttiva servono investimenti rilevanti, ricordando che ogni modifica al processo produttivo deve essere approvata dalle autorità regolatorie» spiega Giorgio Bruno, presidente di CDMO-specialisti della manifattura farmaceutica di Farmindustria. Bruno non si sbilancia sugli investimenti che sarebbero necessari per adeguare gli impianti (altre fonti parlano di cifre tra i 600 e gli 800 milioni di euro per mettere in piedi un impianto adatto alla produzione di vaccini mRNA). Sui tempi, invece, il presidente di CDMO-Farmindustria spiega che occorrerebbero circa 6-8 mesi per trasferire a un impianto italiano la tecnologia e il know-how per la produzione del vaccino.
Quindi se la produzione italiana dei vaccini anti-Covid19 è potenzialmente possibile, sicuramente non può arrivare molto rapidamente. Questo vale anche per il vaccino di Reithera: se il farmaco su cui sta lavorando l’azienda di Castel Romano e su cui ha investito direttamente lo Stato italiano passerà le prossime fasi di sperimentazione, saranno necessari accordi con centri produttivi adeguati per produrlo in grandi quantità. E, anche in questo caso, non è detto che quei centri saranno in Italia.