Alberto Mantovani - Ansa
“Il più grande pericolo che l’umanità sta correndo è l’unico che passa sotto silenzio: sa quante persone sono state vaccinate ad oggi in Africa? Venticinque. Non mandare vaccini proprio ai Paesi poveri del mondo è scandaloso per due motivi: primo etico, secondo sanitario, visto che il virus non si ferma ai confini e le due varianti oggi più temute vengono proprio da lì, dal Sud Africa e da Manaus nella selva brasiliana”.
Avanti così – denuncia Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Istituto Clinico Humanitas, professore emerito della Humanitas University, tra le voci più autorevoli dell’immunologia a livello mondiale – e non ne usciremo mai. E poi l’altra grande assente: la ricerca.
“Immagini di combattere una guerra contro un nemico che non conosce. Non sa chi sia e che strategie usi. Noi in Italia siamo così, ignoriamo che nemico abbiamo in casa e non facciamo nulla per conoscerlo. Senza ricerca, come vinceremo?”.
È l’unica arma esistente, quando la guerra è contro un virus. Eppure “se la Gran Bretagna già ad aprile aveva investito 20 milioni di sterline per il sequenziamento delle mutazioni del Sars-CoV-2 e ora ha finanziato un ulteriore programma ‘G2P-UK’ per identificare le nuove varianti e capire immediatamente se sfuggono al sistema immunitario, in Italia i primi soldi pubblici dedicati a studiare che virus circola in casa nostra sono arrivati a novembre, dopo 80mila morti sul campo. In Humanitas abbiamo fatto ricerca grazie alle donazioni private, ad esempio di Dolce e Gabbana”.
Iniziamo dalle notizie positive: quali sono realisticamente i passi avanti fatti?
La domanda che tutti nel mondo si fanno è: perché qualcuno si ammala gravemente e altri restano asintomatici? Cosa determina reazioni così diverse, anche all’interno di una stessa famiglia, di fronte all’attacco del virus? Questo è il grande mistero del Covid e da qui è nato un grande cambiamento nella visione della malattia, è cominciato cioè un percorso di “personalizzazione” del Covid: studi condotti in Humanitas e in altre istituzioni hanno smascherato in alcuni individui un rischio genetico legato ai geni dell’infiammazione fuori controllo, addirittura in alcuni una vera e propria “immunodeficienza genetica” che aggrava la malattia. Abbiamo inoltre individuato con il Papa Giovanni XXIII di Bergamo nuovi marcatori che con un semplice prelievo del sangue permettono di prevedere la gravità della malattia: nei pazienti gravi di Covid, infatti, sono massicciamente presenti nei polmoni, nella superficie interna dei vasi sanguigni, nel sangue, nelle cellule della prima linea di difesa. Poi abbiamo fatto dei progressi nella terapia, acquisendo alcune certezze o almeno promesse sempre più vicine: ormai è assodato che un quarto dei pazienti con insufficienza respiratoria si salva se trattato con il cortisone, anche se io e molti medici fra cui Fauci siamo preoccupati perché vediamo spesso un uso del cortisone al di fuori delle indicazioni: è un immunosoppressore, e se somministrato nella finestra sbagliata, cioè nelle fasi precoci della malattia, potrebbe essere pericoloso.
E che ne è delle tanto attese terapie basate sugli anticorpi, ossia il plasma iperimmune e i monoclonali?
Il plasma iperimmune, in uso dal 1902, purtroppo in quasi tutte le sperimentazioni verso Covid non ha funzionato, ma magari non è stato usato nella finestra giusta, come dicevo per il cortisone, occorre altra ricerca. Quanto agli anticorpi monoclonali, numerosi dati dicono che – anche questi se usati nella fase giusta – possono cambiare il decorso della malattia: la speranza oggi è molto concreta. L’altra speranza che si sta materializzando riguarda la famosa tempesta citochinica che si scatena nei casi più gravi: fino a poco tempo fa le sperimentazioni cliniche fallivano, ma i risultati raccolti nelle ultime settimane ci dicono che gli inibitori delle citochine, dati al momento giusto, possono controllare la malattia grave. Insomma, sul fronte della cura stiamo camminando verso un uso più intelligente e mirato delle armi che abbiamo.
Nella corsa planetaria contro un nemico comune, c’è invece un errore che sarebbe fatale?
Ce ne sono almeno due, e passano sotto silenzio. Il primo problema sono i Paesi in via di sviluppo. Lo scenario tradizionale è che ci vogliono dieci anni perché un vaccino innovativo passi dalle nazioni ricche a quelle povere, ma se lasciamo che questo accada anche con la pandemia da Covid compiamo qualcosa di particolarmente immorale e di poco accorto dal punto di vista sanitario, perché che ci piaccia o no viviamo in un mondo globale. Esiste un’iniziativa di salute globale che si chiama Covax, lanciata da Gavi Alliance per garantire l’accesso ai vaccini a tutta la popolazione umana, cui anche il nostro Paese ha dato un grande contributo, ma al Terzo mondo arrivano ancora le briciole e gli avanzi. Temiamo tanto le quattro varianti più preoccupanti (una delle quali non viene mai menzionata), cioè quella inglese, quella sudafricana, la brasiliana e quella senza nome nata in California, e non ci accorgiamo che due arrivano proprio dai Paesi poveri? O ci prenderemo cura del mondo nella sua globalità, o queste mutazioni continueranno a toglierci la pace, ma la colpa sarà di una miopia irresponsabile e autolesionista.
L’Africa però sembra essere quasi risparmiata da questa pandemia…
Si parla di “paradosso africano”, lì il virus circola ma causa pochi problemi. Però bisogna analizzare i dati, la popolazione africana è molto giovane, inoltre in passato è già stata esposta ad altri virus e pure a vaccini, come quello contro la tubercolosi. Comunque la sostanza non cambia, il continente con più morti di Covid è l’America Latina e il fatto che in Africa non sia strage non è un buon motivo per non capire che o ci si salva tutti o non si salva nessuno.
Eppure non è difficile da comprendere.
Sono tante le cose logiche non capite nei mesi passati. L’Italia ha un numero di morti per milione di abitanti tra i più alti al mondo, e un contributo importante a questa cosa tremenda – lo dico con sofferenza – lo ha dato una comunicazione non rispettosa anche da parte della scienza. Si sono dette cose che hanno avuto conseguenze disastrose. Nella comunicazione cerco di attenermi alla regola delle tre “erre”: rispetto dei dati, rispetto delle competenze, responsabilità sociale… Senza dati non si può affermare nulla, ad esempio la scorsa estate ho sentito medici dire che il virus si era “attenuato”, ma erano dati fantasma, mai comparsi nella letteratura scientifica. Ancora a settembre, quando l’epidemia ripartiva, gli stessi affermavano che era “finita”. E se sostengo che il plasma iperimmune o l’idrossiclorochina guariscono il Covid, devo dimostrarlo, altrimenti faccio un danno enorme. Il rispetto delle competenze, poi, è fondamentale, come immunologo io non parlo di curve epidemiche, allora di virus parli chi studia i virus. Infine la responsabilità sociale da parte di noi addetti ai lavori significa che non posso esprimermi senza chiedermi che conseguenze avranno le mie parole: se dico che il virus è morto creo reazioni a catena inimmaginabili, proprio i comportamenti sbagliati in estate hanno rimesso in moto un’epidemia che in Italia era quasi spenta. Così pure se affermo che di un vaccino pensato su due dosi se ne possa fare una, induco la popolazione a credere che una dose basti. Gli inglesi lo stanno facendo per disperazione, avendo oltre mille morti al giorno e il sistema sanitario vicino al collasso, ma in questo modo nessuno avrà in tasca un “passaporto di immunità”, nessuno sarà al sicuro. Anche per i vaccini dell’infanzia, ogni anno c’è gente che non torna a fare i richiami, c’è un tema di responsabilità sociale nel non indurre a comportamenti sbagliati.
E il secondo grave problema cui accennava prima qual è?
I pazienti fragili. Un mare di persone che hanno altre malattie magari gravi, che però vivrebbero bene anche decenni, ma che il Covid tragicamente uccide. È una strage che ha poca risonanza e che chiede risposte urgentissime dalla ricerca. Ad esempio i pazienti con tumori del sangue: gli studi del professor Alessandro Rambaldi del Papa Giovanni XXIII di Bergamo e di altri ematologi usciti su Lancet Haematology dimostrano che il 37% dei pazienti con tumori del sangue colpiti da Covid sono deceduti, è drammatico perché sono persone che dalla malattia oncologica oggi salviamo. Stesso discorso per i trapiantati, i cardiopatici, per alcune patologie reumatologiche, tutte categorie cui possiamo assicurare lunga vita ma per le quali il Covid è letale.
Sono i famosi “morti per altre malattie e non per Covid”, secondo alcuni…
Chi afferma questo mi chiedo se abbia davanti agli occhi dei volti, delle persone, delle storie. Io ho davanti agli occhi un mio amico che poco prima di ammalarsi andava a 4.000 metri in Perù, non scherziamo! Dovremo ragionare su questo grande problema sanitario, (Aifa lo sta facendo), per capire se questi pazienti fragili devono avere la priorità nella vaccinazione. Ancora non sappiamo il livello di funzionamento del vaccino in questi soggetti e le risposte sono solo nella ricerca scientifica.
A proposito di vaccini, la gente è confusa: ad esempio i malati di tumore potranno farli? Gli immunodepressi?
C’è un unico messaggio forte comune a tutti gli studi: siamo in una fase in cui l’introduzione dei vaccini deve assolutamente essere accompagnata dalla ricerca scientifica. Infatti la loro approvazione è “di emergenza”, è “condizionale”, cioè devono essere monitorati con grande attenzione. Sui tumori si sta ragionando per capire se mettere in priorità i pazienti e quale sia la finestra temporale, ad esempio una persona con trapianto di midollo quando la vaccino? Non ci sono sperimentazioni cliniche a riguardo, nei trial tutti i soggetti erano sani, ecco allora che adesso la ricerca deve continuamente accompagnare la somministrazione.
E chi ha già avuto il Covid?
Nelle ultime settimane abbiamo imparato molto, i dati rigorosi arrivati dalla Gran Bretagna dimostrano che le persone che sono già state ammalate di Covid nell’83% dei casi sono protette, ma significa che ben il 17% non lo è. Insomma, è opportuno che chi è già guarito si metta in coda e lasci la precedenza agli altri, però poi si vaccini. Fino a oggi lo si sospettava soltanto, ora ci sono le evidenze.
Ma quanto dura la protezione?
Non lo sappiamo neanche approssimativamente, né per la malattia naturale, né per i vaccini. Il primo monitoraggio è arrivato in questi giorni da Israele, il Paese più vaccinato sul totale di abitanti, da loro abbiamo appreso che la prima delle due dosi dà una certa protezione, ma più bassa dell’80% prospettato da qualcuno, e comunque vale per i 21 giorni di osservazione tra le due dosi.
Vaccini e mutazioni: iniziamo ad avere qualche certezza?
Per quanto riguarda le quattro varianti principali che generano preoccupazione, siamo ragionevolmente sicuri che i vaccini diano protezione verso la variante inglese, ma ci sono dei dubbi sulla capacità di neutralizzare facilmente quelle del Sud Africa e del Brasile, proprio le due sviluppatesi nei Paesi poveri… Dai dati è possibile che ci sia una resistenza parziale delle varianti agli anticorpi, ma non sappiamo se sono riconosciuti bene i linfociti T che sono i generali delle nostre armate: in Italia è mancato uno sforzo di sequenziamento, oggi divenuto urgentissimo. Io spero, con qualche fondamento, che ci sia al più presto un cambio di passo nel Paese, un programma organizzato, non più lasciato a piccole iniziative di singoli istituti: è essenziale integrare il sequenziamento dei virus con le conseguenze, cioè capire subito se cambia l’interazione col sistema immunitario e con i vaccini.
Ora che a Varese c’è almeno un caso accertato di variante brasiliana, cosa dobbiamo fare?
Ciò che va fatto sempre, monitoraggio, sequenziamenti delle varianti e delle loro capacità di interagire. Di nuovo: ricerca.
Con le tecniche a Rna messaggero sarà davvero più facile modificare i vaccini sulle eventuali varianti? E quanto tempo ci vorrà?
Anche con le tecniche tradizionali adattiamo ogni anno il vaccino, ad esempio quello antinfluenzale, con quelle a mRna sarà più semplice. I tempi dipenderanno dalle autorità regolatorie che devono autorizzarli.
Presto arriveranno la primavera e l’estate… Cosa non rifare del 2020?
Non ripetere gli errori imperdonabili: l’Italia aveva fatto un miracolo, che era considerato tale da tutto il mondo, a fine primavera aveva praticamente azzerato il contagio. Poi abbiamo perso tutto il vantaggio… Questo virus corre, basti dire che solo grazie a mascherine, gel e distanziamenti quest’anno l’influenza è sparita, invece lui corre, corre lo stesso! Questo ci fa capire che in estate non dovremo mai abbassare la guardia, anche i già vaccinati, per preservare gli altri e pure se stessi, dato che tutti i vaccini hanno una quota di persone che non rispondono (i trial parlano di un 5%... nella vita reale lo vedremo). Io farò la seconda dose il primo di febbraio, ma non cambierò nulla nei miei comportamenti.
Che ne pensa del “patentino” ai vaccinati?
Non c’è niente di scandaloso, io nel cassetto ho il mio passaporto di immunità che è il vaccino contro la febbre gialla per quando vado in Africa. Ma per il Covid non si possono ancora dare sicurezze in un contesto come quello attuale, con una durata di protezione che non conosciamo: come a suo tempo avevo detto che non si potevano dare passaporti di immunità sulla base delle misure degli anticorpi, magari fatte con test inaffidabili, così ora penso che è troppo presto per dare passaporti di immunità sulla base di chi è vaccinato, facciamo pasticci e induciamo i vaccinati a comportamenti gravi. I “passaporti” per essere validi hanno sempre la data di scadenza.
Secondo l’ipotesi di qualche studioso, se tutto andasse male, comunque nessuna pandemia nella storia è mai durata più di due anni. E’ una speranza fondata?
Contare sul fatto che il nemico diventi più gentile è affidarsi alla buona sorte. Questo virus gioca diversamente dagli altri patogeni, non era mai successo ad esempio che i bambini fossero esenti, se si sbaglia la partita sono guai. E non scordiamo che in passato i virus si sono attenuati solo facendo massacri, vedi la Spagnola e i suoi 50 milioni di morti, non credo che sia intelligente. Non ripetiamo gli errori dell’estate scorsa, atteniamoci solo ai dati e comportiamoci sulla base di ciò che sappiamo oggi: è un killer che semina morte, disuguaglianza e povertà. Per favore, non aspettiamo che si converta, fermiamolo noi e facciamo ricerca, ricerca, ricerca.