La spiaggia di Cutro - Ansa
«Conseguenze disastrose e drammatiche». Per il mondo di volontariato, sindacati, avvocati e giuristi, sono quelle provocate dal decreto legge 20 del 2023, approvato dal Consiglio dei ministri appositamente convocato il 9 marzo 2023 a Cutro dopo la strage del 26 febbraio. Per tutti è ormai il “decreto Cutro”, una norma sulla quale sono intervenuti, non applicandola, anche diversi organi giudiziari, a dimostrazione delle numerose criticità. Come sottolinea Oliviero Forti, responsabile dell’Ufficio Immigrazione di Caritas italiana.
«Quanto avevamo ribadito in occasione dell’approvazione è stato avallato dalle Sezioni Unite Civili della Cassazione, che confermano i dubbi sulla norma che prevede il pagamento di una somma di denaro per evitare il trattenimento. I Supremi giudici chiedono alla Corte di Giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi in via d’urgenza sulla garanzia finanziaria di circa 5mila euro che un richiedente asilo deve versare per evitare di essere trattenuto in un centro alla frontiera in attesa dell’esito dell’iter della domanda di protezione». Altra novità introdotta riguarda la procedura accelerata, per cui chi proviene da cosiddetti Paesi sicuri, va in audizione presso la Commissione territorialmente competente per il riconoscimento della protezione internazionale entro 7 giorni dalla formalizzazione della richiesta e, una volta ascoltato, il responso arriva tra i 3 e i 5 giorni.
«Laddove si tratti di persone vulnerabili - denuncia ancora Forti -, dover sostenere l’audizione senza aver avuto un colloquio con uno psicologo o un sostegno legale in una situazione di estrema fragilità, le pone a rischio di diniego. Per tutti coloro che ricevono un diniego, vi è l’allontanamento dal territorio nazionale. Per il governo la soluzione è il potenziamento dei Cpr. Ma abbiamo visto cosa accade in questi centri tra violenze e suicidi».
Ma proprio sul concetto di Paese sicuro c’è una poco nota decisione del Tribunale di Firenze del novembre 2023 che ci segnala l’avvocato Enrico Schembari, responsabile dell’Ufficio tutela minori e persone vulnerabili e componente dell’Ufficio Migrantes della Diocesi di Ragusa. «Riguardava la Tunisia e segnalava come ci possa essere il dovere di disapplicare il decreto con l’elenco dei Paesi sicuri, laddove la sicurezza è soltanto un fatto formale e non per alcune categorie o zone del Paese. È uno dei capisaldi del decreto Cutro e, dice il Tribunale, va disapplicato perché non è vero che la Tunisia è un Paese sicuro ». Ci sono poi alcuni giudici che sono intervenuti sulla norma del decreto relativa alla protezione speciale complementare, la cosiddetta “integrazione sociale”.
A concederla poteva essere oltre alla commissione territoriale asilo, anche direttamente la Questura. «Il decreto Cutro - ci spiega Emilio Santoro, docente di Diritto degli stranieri all’università di Firenze e coordinatore di “L’altro diritto” - ha tolto la possibilità di chiederla direttamente in Questura, ma quello che è drammatico è che ha tolto la possibilità di conversione in quello per motivi di lavoro. Sembrava che per tutte le domande presentate prima del decreto rimanesse il regime precedente. Poi una circolare del ministero dell’Interno dell’1 giugno 2023 ha detto che per quelle presentate in questura vale solo se la domanda di conversione era stata presentata prima del decreto Cutro. Ci sono state almeno 5 decisioni sia del Tar che del giudice specializzato, secondo le quali conta invece il momento di presentazione della domanda di protezione e non della conversione. Malgrado questo, la circolare non è stata cambiata e quindi rimane solo la via giudiziaria».
C’è infine un’altra conseguenza gravissima che, denuncia Forti, «ha nuovamente modificato in peggio il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) com’era già avvenuto con lo Sprar nel 2018. La norma prevede che i richiedenti asilo non vengano più presi in carico da un sistema di accoglienza incentrato su progetti territoriali dei Comuni (Sai), se non quelli vulnerabili, ma inviati nei Cas. La ratio dietro questa norma appare puramente politica, dettata dall’idea che un richiedente debba essere inserito in un circuito di accoglienza prefettizia dove la principale preoccupazione è il controllo dei beneficiari che, in questo modo, sono sottratti all’accoglienza del Sai, gestita dai comuni con tutti i necessari servizi territoriali collegati. Evidentemente questa scelta sta avendo degli effetti negativi sul territorio aumentando la precarietà di molte accoglienze».
Inoltre, aggiunge il professor Santoro, «c’è un incentivo a cambiare il tipo di gestore dei centri. Non è più il privato sociale ma le multinazionali della sicurezza che li gestiscono come un carcere. Oppure di fronte all’aumento degli sbarchi si accetta qualunque gestore possibile, con capitolati vuoti di prestazioni e a costi ridottissimi. Così si fa solo a fini speculativi». E gli effetti si vedono anche sui lavoratori sfruttati, come sottolinea Jean Renè Bilongo, presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil. «Le vittime di sfruttamento lavorativo venivano ospitate per 6 mesi nei Sai e con un permesso di soggiorno di due anni convertibile in quello per motivi di lavoro. Ora la conversione non è più possibile. Sono aumentati i lavoratori che non hanno più alcuna protezione e si rivolgono a noi. Perché senza permesso di soggiorno sono obbligati a lavorare in nero».