IL RICORSO A STRASBURGO
Nessuna dichiarazione di guerra, anzi il tono della missiva è formale e rispettoso: consigliato dai suoi avvocati, Berlusconi ha scelto una doppia linea, comunicando anzitutto all’organismo del Senato che presenterà ricorso alla Corte europea di Strasburgo per «pacifica violazione dei principi» dell’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, impegnandosi a trasmettere alla Giunta entro il 9 settembre copia del ricorso, «attualmente in fase di redazione». Una strada che si prevede comunque lunga e complessa, spiega chi conosce le procedure che presiedono a quel tipo di ricorsi. L’articolo 7, intitolato «Nulla poena sine lege», al primo comma, ribadisce l’irretroattività dell’azione penale («Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale»), specificando che «parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso».
I DUBBI DI COSTITUZIONALITÀ
Ma l’architrave della memoria difensiva è costituita dai sei pareri pro veritate allegati, richiesti da Berlusconi a otto docenti universitari. Tre sono firmati dai penalisti Giorgio Spangher, Gustavo Pansini e Antonella Marandola. Gli altri tre da noti costituzionalisti: Giovanni Guzzetta; Roberto Nania; e l’ultimo siglato a sei mani da Beniamino Caravita di Toritto, Giuseppe De Vergottini e dal membro laico del Csm, in quota Pdl, Nicolò Zanon. Le argomentazioni dei giuristi, seppur con diverse sfumature, evidenziano alcuni «profili di problematicità» della legge Severino, a partire dall’applicazione della misura della decadenza dal mandato parlamentare per sopraggiunta condanna definitiva. Si tratterebbe di una misura retroattiva, sostengono, in contrasto col principio giuridico sancito dal secondo comma dell’articolo 25 della Costituzione («Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso»). E a chi ritiene che la retroattività non si applichi a norme ammi-nistrative, come quelle della legge Severino, i giuristi oppongono un’interpretazione secondo la quale sul suo carattere penalistico non sussisterebbero dubbi, poiché «fa continuo riferimento a elementi di diritto penale sostanziale e processuale» e presenta carattere «afflittivo», in quanto «incide su un bene fondamentale come l’elettorato passivo». La legge di delega, incalza Guzzetta, «non contiene alcuna indicazione espressa che prescriva un’applicazione retroattiva della disciplina ».
LESE LE PREROGATIVE DEL PARLAMENTO
I costituzionalisti osservano inoltre come il decreto legislativo 235 non abbia tenuto conto della copertura costituzionale accordata a deputati e senatori, ponendo problemi di conflitto col dettato dell’articoli 65 e 66 della Costituzione. Ad esempio, Caravita, De Vergottini e Zanon ritengono che l’incandidabilità pro futuro, sopravvenuta ad elezioni già svolte (che determinerebbe la decadenza del parlamentare dal seggio ricoperto in virtù del risultato elettorale) sia il «risultato di una scelta assai radicale e di particolare rigore, che estende con qualche difficoltà alle elezioni politiche, le disposizioni già vigenti per quelle locali e regionali». Ancora, nonostante richiami l’articolo 66 della Carta («Ciascuna Camera giudica sui titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte d’ineleggibilità e incompatibilità »), l’articolo 3 della legge Severino si porrebbe con esso in palese contrasto: se il Senato fosse chiamato a una mera presa d’atto, votando necessariamente sì alla decadenza dal seggio del parlamentare condannato, ciò cozzerebbe frontalmente contro la libertà di determinazione del Parlamento. Secondo i pareri, poi, il testo varato l’anno scorso avrebbe superato i limiti della delega: parlando di «decadenza di diritto», avrebbe minato la facoltà di decidere delle Camere, entrando in collisione aperta col succitato articolo 66.
LA GIUNTA? «PUÒ ADIRE LA CONSULTA»
Infine, i giuristi concordano sulla possibilità che la stessa Giunta per le elezioni del Senato possa sollevare tali dubbi di costituzionalità davanti alla Consulta. La legge, ricordano, prevede che tali questioni possano essere sollevate nel corso di un giudizio davanti a un’autorità giurisdizionale. E si rifanno ad «una chiara giurisprudenza costituzionale» che, seppure in materia elettorale, consentirebbe di attribuire alla Giunta la qualifica di giudice a quo.