Le vittime italiane: Filippo Bari (in alto a destra), Davide Miotti (sotto) e la sua compagna, Erica Campagnaro. Dei primi due sono stati trovati i corpi, Erica invece risulta ancora fra i dispersi
La bocca spalancata in un sorriso, gli occhiali scuri e il caschetto. La gioia immensa di sfiorare il cielo con un dito, lassù, sulla Regina delle Dolomiti, in una splendida giornata di inizio estate. Quello di Filippo Bari, che aveva appena 27 anni ed era il papà di un bimbo piccolo, è diventato già il volto simbolo della strage della Marmolada: si era scattato un selfie pochi minuti prima dello tsunami di ghiaccio e sassi che ha travolto ogni cosa sulla montagna. «Guardate dove sono», il suo ultimo urlo al mondo. Poi il silenzio. Il primo allarme, sulla sua scomparsa, l’ha lanciato il fratello Andrea sui social: c’era quella foto, Filippo era irraggiungibile al telefono e non risultava tra le persone ricoverate in ospedale. Abitava a Malo, nel Vicentino, era in escursione con una cordata di alpinisti della sezione locale del Cai che conta altri dispersi: gente attrezzata, col sale in zucca e la montagna nel cuore e nelle gambe. Come tutti gli altri, traditi dalla cima che amavano e conoscevano (perché tutto quello che amiamo e conosciamo, di questa nostra terra ferita dal cambiamento climatico, sta cambiando e noi facciamo ancora fatica ad accorgercene).
Al Palaghiaccio di Canazei – lo stadio trasformato nello spazio d’un pomeriggio in obitorio – il lavoro dei soccorritori e degli esperti è straziante, oltre che complicatissimo. «Lassù c’è stata una carneficina inimmaginabile. Alcuni corpi sono così deturpati che potranno essere identificati solo attraverso l’esame del Dna» ripete chi esce e cerca di appartarsi fuori dall’ingresso, assediato da decine di giornalisti. Il momento più difficile è quando arrivano i familiari delle persone che non sono tornate a casa, radunati per il riconoscimento di quello che via via viene raccolto sul ghiacciaio: gli psicologi li circondano, poi li accompagnano nelle stanze chiuse, dove l’angoscia diventa lutto, o angoscia ancora più grande. Perché non si sa cosa pensare di chi manca all’appello, finché non si vede quello che è accaduto agli altri. E allora anche l’ultima speranza svanisce: «Cerchiamo i nostri figli, si chiamano Emanuela e Gianfranco – ripetono fra le lacrime i genitori di una coppia di fidanzati arrivati da Montebelluna e Bassano del Grappa –. Erano esperti, avevano la guida...».
Solo quattro dei sette corpi restituiti finora dal ghiacciaio sbriciolato sono stati identificati ufficialmente. Oltre a Filippo, c’è quello di Paolo Dani, anche lui vicentino di Valdagno, 52 anni: era un’esperta guida alpina, il suo lavoro era portare persone in sicurezza in quota, di solito fino a Punta Penia, per la via normale. Un percorso impegnativo che si svolge in parte sul ghiacciaio e che ieri aveva deciso di affrontare con un gruppo di amici, nella classica cordata domenicale. Poi Tommaso Carollo, manager e appassionato di montagna di Thiene, figlio di un ingegnere molto conosciuto in zona. E infine un cittadino della Repubblica ceca, che a sua volta viaggiava in cordata con altri connazionali: alcuni risultano tra i dispersi e due delle auto rimaste parcheggiate ai piedi del sentiero (per ora non collegate ai nomi di chi manca all’appello) hanno proprio la targa di quel Paese.
Ma sul ghiacciaio – parenti e amici ne sono ormai certi – è morto anche Davide Miotti, che di anni ne aveva 51, guida alpina di Tezze sul Brenta e molto conosciuto perché titolare di un negozio di articoli sportivi, scalatore di vette da oltre 25 anni. Su quelle cime era salito più volte negli ultimi giorni, come racconta di nuovo il suo profilo Facebook: portava su lui gli altri alpinisti, spiegava loro i rischi, li ammoniva persino sullo stato di salute precario delle montagne e sul rispetto necessario per scalarle. Le ultime foto risalgono a cinque giorni fa: Davide era sul Sassolungo, la cima grande di Lavaredo, «Weekend di vie normali con la N maiuscola immersi nel patrimonio Unesco più indiscutibile che ci sia» scriveva. Dispersa con lui la moglie, Erica Campagnaro, anche lei appassionata scalatrice. La coppia, che viveva a Cittadella, in provincia di Padova, aveva due figli di 25 e 16 anni.
Trovare qualcun altro vivo sembra ormai impossibile. Troppo grande la mole di detriti che ha travolto gli escursionisti («un condominio di ghiaccio» l’ha definita il governatore del Veneto Luca Zaia al suo arrivo a Canazei, visibilmente commosso per il tributo altissimo pagato dai cittadini veneti coinvolti nella tragedia), troppo violenta la velocità con cui la massa di ghiaccio e massi è corsa giù per la montagna, fino a 300 chilometri all’ora e troppo difficile le operazioni di soccorso, rallentate – sembra una beffa – dall’ondata di maltempo che proprio ieri mattina ha paralizzato la Val di Fassa. Si spera ancora, invece, per gli 8 feriti portati in salvo subito dopo l’incidente, tre dei quali gravissimi: due cittadini tedeschi, come ha confermato il ministro degli Esteri a Berlino, ricoverati in terapia intensiva a Belluno (si tratta di un uomo di 67 anni e di una donna di 58 anni, entrambi in prognosi riservata).
E poi un terzo uomo, di quarant’anni circa, che lotta per la vita a Treviso: nessuno l’ha ancora riconosciuto, anche per le condizioni devastanti del suo corpo all’accesso in Pronto soccorso, che hanno reso quasi impossibile persino togliergli di dosso i vestiti che indossava. Gli altri, meno gravi, sono a Trento: una donna di Pergine Valsugana di 29 anni, in Rianimazione; un’altra di Como, 51 anni, ricoverata in reparto, a cui si aggiungono un 27enne di Barbarano Mossano (Vicenza), inizialmente portato in ospedale a Cavalese e poi trasferito al Santa Chiara. In condizioni stabili, anche lui ricoverato in reparto, un 33enne di Pergine Valsugana (Trento) che inizialmente era stato portato a Bolzano ed ora è in Rianimazione, sempre a Trento.