Elena pensava di non avere via d'uscita. Elisabetta si era sempre e da sempre sentita sola. «Ero sbagliata io, non credevo in me stessa, ero molto fragile - racconta Elena -. Chiunque poteva farmi del male. Crescendo, il primo contatto con la strada non è stata la droga, ma relazioni sbagliate, diciamo così, a undici anni. Ho avuto il mio primo ragazzo a tredici anni ed è stata una storia particolare, violenta. Poi ho conosciuto il padre di mio figlio e lì sono cominciati i casini».
Elisabetta dice che ha cominciato a drogarsi «tardi, a diciotto anni» e si rende conto che quel "tardi" non può essere oggettivo, ma riferito a quel che accade oggi. «Ho iniziato per gioco, per provare, con le canne, poi la cocaina ogni tanto, poi sempre più spesso, finché non diventi completamente dipendente. Sono stata cocainomane vent'anni. Dopo ho anche conosciuto l'eroina e altre droghe, fino ai trentatré».
Da quando aveva sedici viene maltrattata, prima in casa, poi fuori: «Prima mio padre, poi gli altri. Ci fai l'abitudine, diventa una forma mentis, non riesci a renderti conto subito che è sbagliato dare o prendere uno schiaffo. Magari perdoni, pensi che è solo stavolta. Finché non capisci. Ma ci vuole tempo. Non è così semplice come appare». La droga intanto «mi accompagna sempre», spiega Elisabetta. E i suoi due figli nascono entrambi in crisi d'astinenza. «La droga era un modo di sotterrare il mio dolore. Annebbiarlo».
Elena non ha il papà. «Mi vittimizzavo - ricorda -, non ho mai voluto prendermi responsabilità. Pensavo che il mondo ce l'avesse con me e però io rovinavo il mondo». Nasce suo figlio e «ho tanta paura. Mi dicevo "come ho potuto fare io una creatura così? Adesso che ci faccio con questo bambino? Non sono in grado". Però mi tenevo tutto dentro e mi devastava».
Elena ed Elisabetta sono ospiti della comunità "Il Ponte" a Civitavecchia e seguono il programma per le mamme con bimbi. Elena decise di entrarvi «perché mio figlio mi guardava e io non riuscivo a guardarlo negli occhi». La strada è durissima e lunga. Adesso, diciotto mesi dopo, si sente a posto. Viva. Sente anche «un mio dovere verso la società». Elisabetta è in comunità da due mesi e «adesso ho una speranza che non avevo, riuscire a essere una madre sana per i miei figli e di essere una persona capace di relazionarsi con gli altri».
Infine di nuovo Elena: «Mi aspetto da me stessa di non traballare più davanti al dolore fino al punto di toccare il fondo. Di saper chiedere aiuto. E di non sentirmi mai più sola». Suo figlio ha otto anni e dalla stanza accanto lo si sente, felice, scrivere e cantare rap...