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«Da 21 anni non ho più lavoro, lui invece ha un impiego nuovo e una famiglia». Inizia così il racconto di Barbara Bartolotti, a 50 anni ricorda come fosse ieri quel giorno terribile, quando un suo collega, del tutto insospettabile e inaspettato le ha distrutto la vita. È il 20 dicembre 2003. Barbara è in attesa del terzo figlio. È felice. «Ho un lavoro, sono impiegata in un’impresa edile, mi occupo dell’amministrazione e di faccende più pratiche legate all’attività dell’azienda – racconta –. Tra i tanti colleghi, c'è un geometra con cui devo interfacciarmi di più, mi fa spesso anche da autista, anche perché, gestendo gli spostamenti di denaro e i pagamenti degli altri dipendenti e il valore che con loro trasporto, ho bisogno di una figura che mi affianchi e mi protegga… che mi protegga!», sottolinea.
«È sabato pomeriggio. Mi chiama al cellulare lo sento agitato, prosegue, penso subito che sia successo qualcosa al lavoro, ma lui non dà spiegazioni dettagliate, mi chiede solo di incontrarci. Non ho motivo di sospettare nulla. Quando ci troviamo mi fa salire in macchina, parte, dopo qualche minuto gli chiedo di accostare per chiamare mio marito, anche se ancora non realizzo il pericolo. Non faccio quasi in tempo a riattaccare che sento un colpo alla testa. Il primo di una serie. Mi porto le mani al capo, vedo il sangue che comincia a colare, mi giro e lo scorgo con in mano un martello con cui si accanisce nuovamente su di me inferendomi altri colpi. Cado a terra, lui prosegue a calci e pugni e ripete: “Non posso averti, meglio ucciderti”. Con un coltello mi colpisce al ventre. Poi prende una tanica e comincia a versarmi del liquido addosso e mi dà fuoco. A quel punto si allontana lasciandomi a terra, avvolta dalle fiamme».
Barbara riesce ad alzarsi e a chiede aiuto. Poi ci sono i quattro mesi di ospedale e innumerevoli interventi chirurgici al centro grandi ustioni di Palermo. «Naturalmente ho perso anche il bambino scoperto da poco – prosegue –. Ho subito trattamenti dolorosissimi per far sì che la mia pelle bruciata potesse rigenerarsi. Durante il ricovero sono stata licenziata, anche perché lui era il nipote del titolare dell’azienda in cui lavoravamo».
Poi c’è l’altro percorso. Quello della sofferenza psicologica per «tutto il fango che il mio assalitore raccontava in giro, sulla mia vita privata, la mia famiglia e i miei due figli piccoli».
La beffa arriva quando il suo aggressore si avvalse del rito abbreviato. «Nonostante gli furono riconosciuti i capi di imputazione tra cui tentato omicidio con l’aggravante della premeditazione e l’interruzione di gravidanza, oltre alle sevizie operate con estrema crudeltà che avrebbero dovuto portare a un totale di circa cinquant’anni di carcere, la sentenza indicò un verdetto definitivo di quattro anni di reclusione per una serie di attenuanti generiche e il rito abbreviato. Quattro anni – ripete - Alla fine trascorse qualche mese agli arresti domiciliari, perché beneficiò pure dell’indulto».
Dopo il danno la beffa giudiziaria, perché ad aggravare la farsa, grazie alla legge n° 241 del 31 luglio 2006 (Concessione di Indulto), l’aggressore è tornato a piede libero, lavora in banca, vive tranquillamente la sua vita, mentre Barbara, licenziata dall’impresa edile presso cui lavorava (perché tra i vari soci dell’azienda c’era lo zio dell’assassino), tuttora non trova un impiego perché le dicono che “fa impressione” in quanto sfigurata.
Stanca di malagiustizia e di delusioni, nel 2016 Barbara fonda “Libera di Vivere” Onlus, un punto di riferimento per tutti coloro che subiscono violenza, un centro per aiutare le donne, gli uomini e i bambini vittime di aggressioni fisiche, psicologiche e verbali. Oggi gira l’Italia in lungo e in largo per raccontare la sua storia di riscatto e di voglia di vivere. «Quattro anni dopo è nata mia figlia Federica, il mio riscatto, l’affermazione concreta della mia forza». Barbara porta in giro il suo libro “Una storia Barbara” con la sua Onlus.
Alla vigilia del 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, sottolinea che «non deve esistere quella data». Lei oggi non si stanca di chiedere «una pena certa per chi compie questi atti criminali. Lo Stato deve garantire che chi sbaglia paga».