lunedì 2 settembre 2024
Un giorno con i pendolari del vino. Sono soprattutto uomini dell’Est che arrivano in pullman e si fermano per un mese. Il caposquadra è un connazionale
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Almeno un 50% di uva Chardonnay; le quote di minoranza sono di pinot nero, pinot bianco, e poi ci sarebbe anche un 10% di erbamat, il vitigno autoctono della Franciacorta. A vendemmiare, da agosto ai primi di settembre vengono tremila braccianti. La maggior parte sono romeni (più del 50%), bulgari e polacchi. Le quote di minoranza sono di pachistani e centrafricani. E gli studenti che vendemmiavano per pagarsi le ferie sono la cartolina di un’Italia che non c’è più. I filari del Franciacorta oggi sono sostenuti soprattutto dai braccianti del blocco dell’Est, pendolari del vino che arrivano a metà estate in pullman, vengono scaricati nei filari (e alloggiati per il tempo necessario) e tornano a casa un mese dopo, per essere poi richiamati l’estate successiva, se giudicati meritevoli. Il sistema si basa sulle aziende di servizi vitivinicoli, dette anche “aziende senza terra”: imprese di servizi che garantiscono alle etichette del consorzio le braccia necessarie a vendemmiare i 18mila ettari di Franciatorta.

La figura di riferimento è il caposquadra, un connazionale che è anche l’uomo di fiducia delle aziende di servizi, che ha i contatti con il paese d’origine, indispensabili a organizzare le trasferte. Un caposquadra per autobus, cinquanta persone a bus, decine di automezzi che scaricano i braccianti nelle vigne. Nel caso dei braccianti pachistani o africani il viaggio è a più corto raggio: l’autobus passa tra i centri e le stazioni del Bresciano a raccogliere gli avventizi con un interprete, che è la figura di raccordo con l’azienda di servizi vinicoli (sulla maglietta che indossa c’è il logo dell’azienda). Dopo la vendemmia torneranno a fare altri lavori (se li trovano) in Italia.

Chi raccoglie prende 7.95 euro all’ora lordi (e c’è stato un aumento del 6.6% per cento da quest’estate). L’uva viene venduta dai piccoli proprietari di appezzamenti alle cantine (che hanno anche i loro terreni) a circa tre euro al chilo (prima della grandinata di settimana scorsa che ha fatto alzare il prezzo, l’uva Chardonnay era a 2.50 euro), dopo, in seguito a una perdita stimata fino a 2/3 del raccolto in certe zone, il prezzo dell’uva è salito a 3.50 al chilo. Per sapere il prezzo di una bottiglia di Franciacorta degna della nomea della zona invece basta farsi un giro lungo gli scaffali di un supermercato o in un’enoteca. Diciamo più o meno dieci volte quello dell’uva e poco meno di mezza giornata di lavoro di un bracciante, che magari non sa neanche cos’è il vino che contribuisce a produrre. «Tutti quelli che hanno potuto qui si sono messi nel business vinicolo. Hanno coltivato tutte le terre coltivabili. Altri terreni dove poter piantare la vite non ce n’è – dice il proprietario di un appezzamento a Erbusco -. Abbiamo un settore che è al limite, non riesce più a dar lavoro a tutti. E il guadagno vero rimane alla cantina che vende le bottiglie».

La domanda è: esiste il caporalato in queste terre? È una domanda lecita, considerato che, in altri terroirs, altrettanto blasonati, come le Langhe, le inchieste giudiziarie hanno rivelato che qualche caso recente c’è stato. E che la sovrapproduzione vinicola, fenomeno che nel Cuneese si è verificato prima che qui, ha contribuito a generare forme di sfruttamento. «Non abbiamo quasi mai situazioni di lavoro nero, di persone non registrate: sono tutti regolarmente assunti. Nel lavoro nei campi tuttavia non c’è la possibilità di verificare le ore di lavoro. Essendo avventizi (a chiamata) è difficile dimostrare le ore effettive. Perché è il caposquadra che le conteggia, e la verifica è a consuntivo. La cosa che può capitare è che lavorano magari dieci ore, e a fine mese se ne trovano segnate solamente cinque, sei, sette. Le altre ore vengono loro pagate in altro modo. Non lavoro nero, ma magari cinquanta sfumature di lavoro grigio», spiega Enrico Nozza Bielli segretario della Flal Cgil (i lavoratori agricoli) di Brescia.

Conteggio delle ore che è fondamentale per avere la disoccupazione agricola: servono infatti centodue giorni di lavoro (calcolati in base alle ore) in due anni, per aver diritto al quaranta per cento della paga come disoccupazione. Sono queste le informazioni che vengono date direttamente nei filari di vite ai braccianti. Tutti i giorni della vendemmia nei campi ci sono anche i sindacalisti per distribuire acqua, cappellini e materiale informativo in romeno, inglese e punjabi. «Molti di loro non conoscono che qualche parola di italiano. Diventa così fondamentale dare loro informazioni su salari, diritti e tutele, perché molti saranno pagati quando la stagione della raccolta, che dura meno di un mese, sarà finita, e loro avranno già fatto ritorno ai paesi di origine. Anche questo fa capire la loro condizione di debolezza economica. Li mettiamo in condizione di farsi una domanda e di non essere fregati», aggiunge il responsabile della Cgil bresciana.

Il van dei sindacati gira tra le vigne. Rovato, Erbusco, Cazzago San Martino, Rodengo Saiano. Sono tutte concentrate qui le bottiglie del Franciacorta: le etichette più famose che conosce anche il frequentatore della movida milanese e le produzioni limitate. Si cercano i filari con le cassette appoggiate di tre quarti sotto i grappoli, pronte per essere riempite. Il torpedone dei romeni spunta dietro la collina di una tenuta da favola: vigne di pinot nero, con il corridoio tra i tralci liscio come un biliardo a declinare sulle pendici ed esaltare nella giusta prospettiva un cascinale che si erge sulla sommità del colle, tra i pilastri, aldilà dei cipressi e di un cancello in ferro battuto. I romeni, quasi tutti uomini, giovani e vecchi, scendono dall’autobus a torsi nudi e sudati, i volti cotti dal sole, gli sguardi stanchi a feritoia: si incolonnano nelle campagne senza degnare di uno sguardo il paesaggio. Cristina Vlad, funzionaria della Cgil, di madrelingua romena si porta alla testa del gruppo. «Qua siete già venuti», gli fa cenno il caposquadra. Si fa inversione per Erbusco. C’è un pullman di pachistani fermo sulla strada. Loro invece, per difendersi dal sole, si bardano da capo a piedi. Il loro interprete squaderna documenti sul cofano di un’auto. «Siamo fermi», spiega un trattorista carico di cassette vuote e bottiglie d’acqua. Sono arrivati l’ispettorato del lavoro e Ats, li stanno controllando uno a uno. Ha chiamato la cantina per dirci che hanno già acceso le presse.

Ma non si può fare niente. Qui ci vorrà un po’. Andate dall’altra parte, di là». Il trattorista ci manda la posizione del suo collega sul telefonino. In questa vigna (piccola proprietà, etichetta di pregio) ci sono i centrafricani; le donne sono molte di più, e per difendersi dal sole usano gli ombrelli come copricapo. In due ore le quattro cassette d’acqua (con il qr code del sindacato di fianco all’etichetta) sono finite insieme ai capellini. Con i sindacalisti c’è una dottoranda dell’università di Padova che sta preparando una tesi sul ruolo dei sindacati di strada e la situazione lavorativa nei campi. «Per noi si tratta di un’importante attività di presidio del territorio per combattere lo sfruttamento dei lavoratori, che da quest’anno si accompagna a una fondamentale miglioria contrattuale. – spiega Nozza -. Con il rinnovo del contratto provinciale di lavoro, del luglio scorso, è previsto l’obbligo per le aziende di fornire preventivamente la documentazione relativa agli appalti in essere, che in larghissima parte riguardano le operazioni di raccolta. Questi dati serviranno anche alla sezione territoriale della “rete di lavoro agricolo di qualità” prevista dalla Legge anticaporalato, rete che finalmente, è stata quest’anno costituita a Brescia».

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