Ha dato ottima prova di sé. È guardato con ammirazione ed è stato imitato in accordi successivi con altri Stati. Funziona così bene che in 25 anni le confessioni aderenti, dalle quattro degli esordi, sono diventate nove e altre sono in lista d’attesa. Eppure l’8 per mille continua a essere una sorta di 'grande incompreso', se perfino la Corte dei conti, nella deliberazione resa nota venerdì scorso, ne dà una versione parziale. «Di tendenza », chiosa il professor Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale.
Il testo della Corte dei conti è lungo e denso, una disamina puntigliosa. Con qualche sbavatura? C’è un aspetto positivo, la ricchezza dei dati. Viene poi sottolineato l’uso distorto della quota assegnata dai contribuenti allo Stato, che per legge andrebbe destinata a beni culturali, calamità naturali, fame nel mondo e assistenza ai rifugiati. Ma a questo punto interviene un errore di prospettiva.
Il solito 8 per mille 'grande incompreso'? Viene attaccato il sistema in sé senza una comprensione di ciò che lo caratterizza. L’8 per mille è il primo caso di democrazia nell’indirizzo della spesa pubblica.
I contribuenti partecipano alla destinazione di una parte, sia pur piccola, del gettito fiscale, è così? Non si tratta di erogare delle somme a favore delle confessioni religiose, perché ne facciano quel che vogliono, ma di partecipare alla destinazione della spesa tra finalità confrontabili. Destinazioni parallele: lo Stato per interventi straordinari sociali e culturali, le Chiese con alcune varianti, ma soprattutto per culto a servizio della popolazione e carità. Il presupposto, poi, non è l’appartenenza confessionale. Non a caso alcune confessioni ricevono consensi palesemente superiori al numero dei propri fedeli. Il sistema funziona così bene che anche la comunità ebraica, da una sorta di imposta ecclesiastica, è passata all’8 per mille, come le altre dieci confessioni che vi partecipano.
La Corte dei conti contesta in particolare che l’8 per mille venga ripartito tutto a prescindere dalle firme. Chi non si esprime è indifferente ed è arbitrario affermare che la mancata opzione sarebbe un’opzione di fatto a favore dello Stato, che pure partecipa alla destinazione. La Corte dei conti invece ha ragione quando avverte che bisognerebbe facilitare la scelta: troppi contribuenti sono messi in difficoltà dal fatto di non dover presentare la dichiarazione dei redditi.
La partecipazione andrebbe facilitata, senza dubbio. Ma la Corte dei conti arriva perfino a criticare la cifra assegnata dai contribuenti alla Chiesa cattolica, che sarebbe eccessiva. Questo è un giudizio politico e la Corte non può essere né pro né contro. Va poi precisato che per simili questioni esiste la Commissione paritetica, prevista dalla legge 222, che ogni tre anni si riunisce e esprime le sue valutazioni per «predisporre eventuali modifiche».
In sostanza, la deliberazione della Corte dei conti ha alcuni aspetti positivi e altri problematici? Direi che si manifesta di tendenza, laddove compie letture politiche. Il punto debole, ripeto, è l’errore di prospettiva di fondo. Il sistema funziona, ha contribuito al superamento definitivo delle leggi eversive dell’Ottocento, le confessioni religiose l’hanno giudicato in modo positivo, partecipano e stanno chiedendo di partecipare. La deliberazione non ne coglie l’originalità di democrazia nell’indirizzo della spesa: il suo punto di forza, chissà perché ignorato.