Il Palazzo della Consulta, sede della Corte costituzionale - Ansa
Il quorum dei due terzi del Parlamento, sufficiente a cambiare la Carta costituzionale senza ricorrere al referendum, non è l’unico "spauracchio" di questa campagna elettorale. C’è un altro quorum più basso, i tre quinti (corrispondente a 360 parlamentari), sufficiente a nominare - a scadenze diverse - i membri laici del Consiglio superiore della magistratura e i giudici della Corte costituzionale di competenza delle Camere.
E gli ultimi sondaggi, applicati al meccanismo del Rosatellum che premia nei collegi uninominali i partiti che si sono coalizzati e non divisi, portano a ipotizzare che il centrodestra possa perseguire un obiettivo simile, il 60% dei parlamentari.
La controprova sul Csm la si avrà a inizio legislatura. I membri togati dell’organo di autogoverno della magistratura saranno eletti il 18 e 19 settembre. Le nuove Camere, che si riuniranno per la prima volta entro metà ottobre, dovranno dunque affrontare presto, entro la fine dell’anno, il dossier degli otto membri laici da mandare a Palazzo dei Marescialli. La priorità dei neoeletti sarà la nomina dei presidenti di Camera e Senato, e poi la formazione del governo.
Ma immediatamente dopo, in agenda c’è il Csm. In seduta comune, le Camere sceglieranno otto membri prima provando a raggiungere la maggioranza dei tre quinti dei componenti (360, appunto); poi, dal terzo scrutinio, la maggioranza dei tre quinti dei votanti.
«Questi quorum – spiega il presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli – rispondono all’equilibrio che occorre raggiungere tra una condivisione larga delle nomine e l’operatività degli organismi». Mirabelli non si fascia la testa in anticipo rispetto all’ipotesi che il centrodestra da solo, aritmetica alla mano, possa decidere di eleggere i "laici" del Csm senza condividere rose di nomi con l’opposizione.
E osserva: «Non c’è un partito unico, si tratta in ogni caso di coalizioni eterogenee, all’interno delle quali ci sono componenti che tendono verso un dialogo fuori dai propri confini». Tuttavia, come conferma un altro presidente emerito della Consulta, Giovanni Maria Flick, in senso generale, astratto, tecnico, non politico, la maggioranza dei tre quinti non è vincolata ad un accordo con le opposizioni.
«Ci potrebbe essere la tentazione di cambiare a fondo gli organismi non attraverso riforme costituzionali impegnative dal punto di vista dei quorum e dei passaggi parlamentari, ma utilizzando la via breve di sostituire i componenti». Flick inoltre invita a chiarire meglio come le proposte di riforma in senso presidenzialista della Carta si coniughino con le nomine negli organismi di garanzia.
La prospettiva che il centrodestra abbia una maggioranza autosufficiente per eleggere i membri laici del Csm esiste, è fondata. E la prospettiva si allunga sino alle future nomine per la Corte costituzionale.
A settembre si concludono i nove anni del presidente in carica Giuliano Amato, nomina quirinalizia e che, dunque, lo stesso Quirinale provvederà a sostituire.
Ma nell’autunno 2023, tra un anno, conclude il mandato la giudice di nomina parlamentare Silvana Sciarra. A fine 2024 altri tre giudici di nomina parlamentare, Franco Modugno, Augusto Barbera e Giulio Prosperetti, dovranno essere sostituiti. Per la Consulta la regola elettorale è la seguente: nei primi tre scrutini si insegue la soglia dei due terzi, dal quarto si passa, ancora, al quorum dei tre quinti dei componenti le Camere.
Sinora, rispetto all’ipotesi che il centrodestra possa fare da sé sulla Carta e sulle nomine istituzionali, Giorgia Meloni ha provato a rassicurare, promettendo dialogo con le opposizioni in qualsiasi scenario "numerico".
Ma nel Pd, invece, proprio il rischio che gli organi di garanzia siano occupate con nomine "monocolore" è utilizzato per richiamare al voto utile, che ormai Enrico Letta chiede apertamente.
Il costituzionalista Stefano Ceccanti, candidato dem nel collegio di Pisa alla Camera, è ancora più netto: «Chi non vuole che si realizzino questi scenari deve comprendere che negli uninominali va premiato il Pd, l’unico antagonista del centrodestra, senza disperdere il voto».
È una lettura, però, contrastata dagli altri due poli, quello di Calenda-Renzi e il M5s di Conte, che puntano a un risultato in doppia cifra nel proporzionale al fine di essere loro quell’argine che impedisca alla coalizione di centrodestra di raggiungere, in autonomia, maggioranze qualificate alle Camere.