Avanti per la sua strada, sino in fondo: «Troverò i numeri, sono pronto a confrontarmi con tutti». Pier Luigi Bersani prova a non sentire il peso delle condizioni poste dal Colle. E per arrivare all’obiettivo di formare un governo cambia schema: non bastano ministri e programmi «a trazione grillina», serve di più. Ora «si gioca a tutto campo». Perciò «ci vuole un po’ di tempo». Per questo motivo le consultazioni del segretario sono già iniziate: ieri i presidenti di Camera e Senato, oggi le parti sociali (sindacati, imprese e volontariato), da domani i gruppi parlamentari (con apertura all’ipotesi di vedere faccia a faccia sia Beppe Grillo sia Silvio Berlusconi, se accettano). L’ipotesi è di concludere il giro e salire al Quirinale tra martedì e mercoledì, e giurare - se tutto filasse liscio - già giovedì.«Sono determinato, svolgerò questo incarico con ponderazione ed equilibrio», dice il segretario all’uscita della sala della Vetrata. E ancora: il governo dovrà «generare il cambiamento atteso dagli italiani e avviare un percorso di riforma costituzionale e politico-elettorale». È un piano di lavoro che prevede due tavoli di confronto. Il primo, quello con Monti e (auspicate) pattuglie grilline, è sulla nuova piattaforma programmatica. Contenuti forti, specie sulla rivisitazione dei costi della politica e sul sostegno alla crescita economica, ma senza piegarsi ai diktat M5S sulla rinuncia ai rimborsi elettorali. Un versante sul quale Monti venderà cara la pelle, al punto che ieri, Andrea Olivero, ha fatto sapere che «niente è scontato». Una perplessità alla quale si chiede di rispondere con nomi di garanzia sul versante delle finanze e dell’Europa.L’altro tavolo, in realtà quello decisivo, è con Berlusconi, e riguarda sia l’elezione del nuovo presidente della Repubblica sia il pacchetto di riforme istituzionali da fare insieme. Le insidie non mancano. Quali impegni è in grado di prendere Bersani a nome del Pd sulle revisioni costituzionali? Certo, molto si può fare insieme sulla riduzione del numero dei parlamentari e altre cose sentite dal Paese. Ma il punto è l’assetto istituzionale della Terza Repubblica. Un grattacapo.In realtà il vero nodo è il nuovo inquilino del Colle. E qui siamo alle schermaglie, ai nomi di bandiera che nascondono la trattativa reale. La rosa dei veri papabili ieri dava di nuovo in ascesa Giuliano Amato e un outsider come Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale. Ma nessuno dei due offre, nei desiderata di Berlusconi, le stesse garanzie di Giorgio Napolitano. Perciò l’attuale presidente, nonostante abbia detto mille «no» ad un reincarico a tempo, deve mettere in conto un pressing crescente e bypartisan nei suoi confronti. Che potrebbe raggiungere le sembianze di un vero e proprio «appello» del Parlamento.Solo con un accordo con il Pdl riguardante il Quirinale, Bersani potrebbe incassare ciò che vuole: una "non-sfiducia" della Lega benedetta dal Cavaliere e/o la non-ostilità del Pdl. E una squadra di governo con una dose di nomi "radicali" dovrebbe funzionare da specchietto per le allodole per i senatori M5S. D’altra parte, sottolinea Nichi Vendola, in questi giorni spin-doctor del segretario Pd, «Napolitano non ha mai parlato di maggioranza, ma di fiducia». Sono cose diverse. Ovvero: muovendosi «d’astuzia e d’audacia», si può evitare di incassare i voti della destra e andare avanti comunque. Ma se le cose non andassero così, Bersani avrebbe tra le mani una grande tentazione: mettere lui le mani sul Colle con Romano Prodi, contando sui voti di Monti, e spingere verso la mai abbandonata tentazione delle urne (con lui ancora al timone). Un mezzo incubo per Berlusconi. Tuttavia una cosa è certa: Bersani farà di tutto per evitare che si parli di «inciucio» con chi «manifesta contro i giudici». Le formule debbono essere sottili.Sullo sfondo c’è il grande tema di ciò che si apre nel Pd in caso di fallimento. La previsione è che il partito si divida tra ritorno al voto e sponsor del piano-B di Napolitano. In entrambi gli scenari, il segretario subirebbe un processo e salirebbe la stella di Matteo Renzi. Non più come elemento di divisione, ma come collante di tutti i 40enni pronti a prendere il partito tra le mani.