Adelina Sejdini in una foto scattata alcuni mesi fa
Sono stati celebrati sabato mattina nel cimitero del piccolo paese di Collepasso, nel Leccese, dal parroco don Antonio Russo i funerali di Alma Sejdini (nota come Adelina), la 47enne ex vittima di tratta della prostituzione che si era tolta la vita nella notte tra il 5 e il 6 novembre lanciandosi dal ponte Garibaldi di Roma. La sua bara bianca è stata avvolta nel tricolore italiano su richiesta di un fratello.
A Collepasso risiede tutta la sua famiglia ad eccezione della sorella Ermira, che abita a Pavia (dove viveva anche Adelina) e che oggi chiede chiarezza: «Ci stiamo concentrando sui giorni precedenti la morte – dichiara l’avvocato Barbara Ricotti, il legale di Pavia che sta seguendo la famiglia Sejdini –. Ermira era a Roma per il riconoscimento e la restituzione degli effetti personali e proprio nella borsa di Adelina ha trovato due braccialetti bianchi, di quelli che si applicano ai pazienti all’ospedale; il primo con la data del 3 novembre e un codice arancio dell’Ospedale San Giovanni, l’altro bracciale è del giorno successivo ed indica un codice rosso all’ospedale Santo Spirito. Ma Adelina da quella clinica è uscita nel giro di poche ore, tanto da morire nella notte tra il 5 e il 6 di ottobre. Perché è stata dimessa una donna malata che nei giorni precedenti aveva tentato due volte di togliersi la vita?».
L’unica cosa che a Roma era stata consegnata ad Adelina proprio il 5 novembre (il suo ultimo giorno di vita) era il foglio di via, che non avrebbe mai voluto vedersi recapitare. In più, aveva ottenuto la cittadinanza albanese e non quella italiana e rischiava di perdere il diritto al sussidio mensile che Anmic Pavia era riuscita a farle avere come invalida al 100%, poco meno di 300 euro. Una vicenda umana e di giustizia civile finita in tragedia che ha spinto il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni ad annunciare un’interrogazione al Governo definendo il caso di Adelina «un fallimento dello Stato, che non riesce a tutelare e assistere chi, con enormi conseguenze e indicibili sofferenze, decide comunque di non voltarsi e fare la cosa giusta».
Di certo, Adelina avrebbe meritato più attenzioni: a bordo di un gommone arriva da Durazzo, alla fine degli anni novanta, prima nel Varesotto e poi tra la Basilicata e la Puglia, pronta per il mercato della prostituzione: «Mi ricordo bene il giorno della mia partenza – aveva dichiarato in una recente intervista al settimanale diocesano Il Ticino di Pavia –. Gli agenti della polizia albanese ci dicevano “chissà quanti bei soldi andrete a fare con il vostro nuovo lavoro italiano!”».
In Italia, invece, Adelina scopre che delle forze dell’ordine può fidarsi: denuncia, chiede protezione e fa arrestare 40 persone, 80 le denunce nell’ambito dell’inchiesta 'Slaves of 2000' condotta nel 2002 dai Carabinieri di Matera, dal colonnello Giacomo Vilardo e dall’allora capitano Mario Tusa. Adelina chiede che le indagini siano condotte partendo dalla difesa dei diritti umani e che si considerino le prostitute vittime dei loro sfruttatori. Porta avanti la sua battaglia per vent’anni, da guerriera.
Ma perde lo scudo. Nel 2019 le diagnosticano un tumore al seno. La operano all’ospedale San Matteo di Pavia ma è senza lavoro e senza casa. La Diocesi pavese la accoglie alla Casa della Carità. Poi, grazie al vescovo Sanguineti e al vicario don Pedrini, le viene dato un piccolo appartamento nel cuore della città. Ma il permesso di soggiorno non arriva, anzi, si avvicina lo spettro della perdita di ogni diritto. Poi, l’ultimo tentativo a Roma alla ricerca di un aiuto e la tragica fine annunciata più volte. A chi oggi la piange spetta il delicato compito di non dimenticare il valore delle sue battaglie.