Il Palanitta è un piccola
struttura nascosta tra i palazzoni grigi di Librino, periferia disagiata a
sud-est di Catania. Si fa fatica a trovarlo in assenza di indicazioni precise.
Quasi fosse nascosto appositamente. Improvvisamente appare un gruppo di
persone che girano tra le piazzette attigue.
Sono i migrati arrivati a Catania negli ultimi giorni. Hanno voglia di parlare
e raccontarsi. Quasi fosse un modo per esorcizzare la fatica del viaggio e per
attirare l'attenzione. Poco importa se nel nostro pulmino ci sono scarpe e
vestiti per loro. Le maglie – benevole – delle forze dell'ordine si allargano e
ne approfittiamo per aprire un dialogo. Previa autorizzazione.
Mballo, 22 anni,
ci viene incontro e comincia a parlare come un fiume in piena. Attorno a lui
altri ragazzi appena maggiorenni che consumano il pasto offerto dalla
Protezione Civile. Hanno il capo chino, alcuni disinteressati dal mondo
attorno. “Arrivo dal Senegal, dopo aver passato Mali, Burkina Faso, Niger,
Libia”. Un viaggio che è durato un mese per raggiungere il paese libico: “In
Libia sono rimasto, poi, 5 mesi, dove ho lavorato per guadagnare i soldi necessari
per la traversata”. Il volto di Mballo cambia radicalmente espressione.
Domandiamo il perché. “I libici sono razzisti, loro si considerano superiori
e con quelli che hanno la pelle nera sono senza pietà”. Con un po' di
reticenza, visto che molti dei suoi amici sono ancora in Libia, ammette: “Quando
siamo arrivati, dopo un mese di viaggio, ci hanno derubato di tutto, soldi,
telefono, scheda telefonica, vestiti, tutto insomma”. Ecco spiegato il
motivo per il quale molti di questi ragazzi pur spendendo migliaia di dollari
per la traversata sono privi di tutto.
Poi l'arrivo in Sicilia. Ma sono
consapevoli che quando sbarcano non troveranno facilmente un lavoro o una
sistemazione definitiva? “Si lo sappiamo a noi non interessa, è meglio
guadagnare qualcosa qui per mandarlo alla famiglia, in Senegal anche 50 euro
valgono tanto”. Alla fine della chiacchierata non chiedono nulla in cambio.
Né cibo, né soldi. Dandoci un grande esempio di dignità. Il loro
approccio a una realtà nuova, sconosciuta, è sorprendente. Ogni gesto, ogni
parola, che a noi osservatori dall'altra parte della barricata può apparire
artefatto, in realtà è un segno, una richiesta esplicita di rivelarsi cosi come
sono.
In molti domandano invece di poter chiamare a casa. Li assecondiamo, e in
breve tempo riescono a mettersi in contatto con i propri cari. Una brevissima
telefonata che significa tanto a cospetto dei pochissimi secondi a
disposizione. Un saluto nel dialetto locale e un sorriso che si fa più grande.
Ci congediamo parlando di calcio, dei mondiali in corso e scherzando sulla
mancata qualificazione del Senegal. Parole futili di un arrivederci che lascia
l'amaro in bocca per non poter fare di più che una semplice telefonata.
Accoglierli è anche questo.
*Caritas
Catania