Striscioni per Ramy nel quartiere milanese del Corvetto - FOTOGRAMMA
La morte di un 19enne, avvenuta durante un inseguimento dei Carabinieri nel quartiere milanese Corvetto, ha spinto decine di giovani di origine straniera a protestare con atti di vandalismo, roghi e perfino assalti alle forze dell’ordine. Un film già visto, troppe volte, in altre città europee e che ci pone di fronte al carattere sfidante di quella che le scienze sociali hanno definito la seconda generazione proprio per indicare come le biografie di questi giovani siano inevitabilmente inscritte nella storia migratoria familiare.
Introdotta agli inizi del 1900 nell’America, meta della grande migrazione d’origine per lo più europea, l’espressione “seconda generazione” era evocatrice del sogno americano e delle aspettative di mobilità sociale proiettate dalle famiglie migranti sui propri discendenti. Aspettative che, per molti, si sono effettivamente realizzate nel quadro di società dove ancora l’ascensore sociale non si era bloccato e la voglia di fare e il desiderio di riscatto potevano bastare per guadagnarsi un posto al sole.
Diversa l’esperienza dei Paesi europei che, proprio a ridosso della crisi degli anni Settanta e poi nella fase di declino dell’economia fordista e dei sistemi di welfare, si sono trovati a fare i conti con la presenza di tanti giovani “issues de l’immigration”: così li hanno definiti i sociologi francesi, sottolineandone il carattere di fenomeno inatteso e indesiderato. Figli dei “lavoratori ospiti” importati in misura copiosa negli anni del boom e retaggi degli imperi coloniali, i giovani cresciuti nelle famiglie immigrate si sono trovati a riflettere tutta l’ambivalenza del rapporto tra società europee e immigrazione. Società che, nell’efficace espressione di A. Sayad, avevano voluto l’immigrazione per la loro prosperità per poi dover fare i conti con la sua posterità.
Appartenenti a famiglie spesso povere di risorse culturali ed economiche, non di rado segregati nei quartieri difficili e nelle banlieues, questi giovani hanno finito col simboleggiare i temi dell’insuccesso scolastico e della marginalità sul mercato del lavoro, i fenomeni di inquietudine identitaria e di disagio familiare, il problema della devianza e della criminalità urbana, le sollevazioni violente e il conflitto con le forze dell’ordine investite dell’accusa di razzismo istituzionale e erette ad emblema di uno Stato che aveva tradito le sue promesse di uguaglianza. E poi finanche a simboleggiare questioni quali i matrimoni combinati e la radicalizzazione su base religiosa, assurte a emblema della distanza culturale – o addirittura della incompatibilità culturale – tra “noi” e “loro”. Tanto da decretare il declino di un po’ tutti i “modelli” di integrazione, dall’assimilazionismo alla francese al multiculturalismo inglese, a dispetto dei milioni di giovani d’origine immigrata che, grazie ai sacrifici dei genitori e al proprio impegno a scuola, nel lavoro e nella vita sociale sono riusciti a farsi strada e perfino a proporre una versione “generativa” della loro religiosità.
Simile l’esperienza dei tanti giovani protagonisti, in Italia, di traguardi scolastici e lavorativi, impegnati nel volontariato e nella vita associativa, talvolta campioni sportivi, artisti, cantautori di fama, attivisti che portano nuova linfa anche nella sfera politica, per esempio rivendicando quel diritto alla cittadinanza troppo spesso sottovalutato da chi lo ha sempre avuto.
Non si deve però trascurare come molti bambini e ragazzi con background migratorio portino la pesante eredità dello svantaggio strutturale di cui sono vittime le loro famiglie. In oltre quattro casi su dieci, i nuclei stranieri vivono in povertà assoluta: ciò non deve stupire se si considera che l’Italia è tra i Paesi che attraggono gli immigrati meno istruiti e ne apprezza soprattutto la disponibilità a fare i lavori che “noi” non vogliamo più fare. Visto che le diseguaglianze tendono a trasmettersi intergenerazionalmente, è chiaro che il loro percorso sia tutto in salita. Ed è intuibile che, specie per chi abbandona precocemente i sistemi formativi (il 26,9% dei 15-29enni stranieri, tre volte tanto gli italiani), la microcriminalità possa costituire un viatico di affrancamento e di riconoscimento identitario più allettante di un lavoro poco pagato e magari precario; un lavoro, appunto, “da immigrato”.
L’esperienza di altri Paesi insegna, anzi, come la frustrazione per la mancanza di opportunità e la percezione di essere discriminati sia alimentata proprio da un’assimilazione culturale riuscita: è quello che gli studiosi definiscono il paradosso dell’integrazione, che porta con sé il rischio di condotte devianti e identità reattive. Di questa consapevolezza occorre fare tesoro. Tanto più ora che si è finalmente riaperto il dibattito per la riforma della legge sulla cittadinanza. Giacché la cittadinanza è certamente uno strumento di inclusione, dal punto di vista materiale e da quello simbolico. Ma è anche una promessa di uguaglianza, non solo formale, che poi non va disattesa.