La copia del “Ritratto di Napoleone I Imperatore” di François Gérard conservata al Castello di Fontainebleau - Thomas Coex/Afp
Duecento anni fa le notizie viaggiavano più a rilento, ma non per questo risultavano meno clamorose. Quella della morte di Napoleone, nella fattispecie, impiego due mesi per raggiungere l’Europa. Fu ripresa dalla Gazzetta di Milano il 16 luglio e solo il giorno dopo arrivò a Brusuglio, nella tenuta della famiglia Manzoni. Il resto, grosso modo, lo sappiamo: tre giorni di composizione febbrile, con Enrichetta che suona ininterrottamente il pianoforte per tenere viva l’ispirazione di Alessandro, ed ecco Il cinque maggio, ecco l’inizio di un confronto con la censura che non impedirà all’ode di ottenere una risonanza di portata europea. Merito, tra l’altro, di quell’attacco memorabile, due sillabe che hanno la perentorietà delle battute con cui si apre la Quinta sinfonia di Beethoven.
Ei fu è ora il titolo quasi identico di due libri che si differenziano però per prospettiva di ricerca. Nel suo Ei fu. La morte di Napoleone (il Mulino, pagine 230, euro 16,00) lo storico Vittorio Criscuolo ripercorre l’ultima fase della vita di Bonaparte, che dal fatidico esilio di Sant’Elena riesce a gettare la basi di un mito postumo alla cui diffusione contribuirà lo stesso Manzoni. Ed è proprio su questo terreno che si muo- ve l’italianista Matteo Palumbo nell’altro “Ei fu”. Vita letteraria di Napoleone da Foscolo a Gadda (Salerno, pagine 100, euro 9,90), breve e preziosa scorribanda che mantiene ancor più di quanto promesso in copertina. Il vero punto di partenza è infatti costituito dai versi di Vincenzo Monti, la cui si eco si ritroverà nel Cinque maggio manzoniano, mentre come approdo provvisorio può essere indicato un racconto di Michele Mari, uno scrittore che è a sua volta studioso accreditato della letteratura italiana fra Sette e Ottocento.
Quello di Monti è, in effetti, un caso particolarmente interessante, considerato che al «cittadino Bonaparte » (siamo nel 1797, all’apice della Campagna d’Italia) il poeta dedica un ambizioso Prometeo dal valore singolarmente profetico. Nelle intenzioni dell’autore il paragone mitologico intende esaltare le imprese del comandante vittorioso, ma più tardi l’immagine del «nuovo Prometeo » si presterà a descrivere la cattività dell’imperatore decaduto, metaforicamente incatenato a Sant’Elena come il titano alla rupe. Decaduto sì, ma pur sempre imperatore, almeno secondo il cerimoniale al quale la piccola corte di Sant’Elena continua ad attenersi. La decisione, come spiega Criscuolo, è anzitutto politica: rifiutando di accontentarsi della qualifica di generale accordatagli dalle autorità inglesi da cui è controllato, Napoleone rivendica la legittimità della propria incoronazione e cerca così di stabilire una continuità dinastica con il figlio Napoleone Francesco, che nel frattempo, per iniziativa della madre Maria Luisa, da aspirante «re di Roma» è diventato il duca Reichstadt (cresciuto alla corte imperiale di Vienna, l’erede designato morì nel 1832, a soli 21 anni).
Com’è noto, un ruolo fondamentale nella costruzione della leggenda napoleonica fu svolto dai resoconti di quanti seguirono Bonaparte in esilio, raccogliendo ricordi e confidenze poi riportate più o meno fedelmente in una serie di libri tra i quali spicca il fortunatissimo Memoriale di Sant’Elena. Allestito da Emmanuel de Las Cases, unico funzionario civile nel drappello che accompagnava Napoleone, il testo assunse molto presto la funzione di testamento spirituale, nonostante la frequentazione dell’autore con l’imperatore in disgrazia fosse stata abbastanza breve. Quanto al testamento vero e proprio, si tratta di un documento veramente napoleonico per esibita imponenza, dichiarata magnanimità e sostanziale inapplicabilità, come Criscuolo dimostra in uno dei capitoli più appassionanti e imprevedibilmente romanzeschi del libro. Personaggio principale, se non esclusivo, della propria epopea personale, Napoleone rimane una presenza costante nella letteratura italiana.
Grazie a Manzoni, certamente, ma anche grazie alla contrastata posizione di Foscolo, che dall’entusiasmo della Oda a Bonaparte liberatore passa al disinganno e all’abiura contenuta nella prima frase delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Altro incipit memorabile, «Il sacrificio della patria nostra è consumato», nel quale – come finemente nota Palumbo – Foscolo allude all’evangelico consummatum est, istituendo un legame tra la visione politica di cui il suo romanzo è portatore e quella religiosa, provvidenziale e redentrice, che Manzoni svilupperà nel Cinque maggio.