Il cantautore emiliano Luciano Ligabue, 60 anni - Ray Tarantino
C’è soprattutto la cifra della qualità nel simbolico e divertito florilegio di quantità racchiuso nel gioco di numeri del nuovo (e storico) lavoro di Ligabue, 77+7. Sembra così risuonare anche il biblico “70 volte 7” (l’esortazione alla non misurabile entità del perdono), ma è forse soltanto evocato in lontananza nella numerologica spiegazione che il Liga fornisce di questo simbolico titolo. «A parte il fatto che il 7 è sempre stato il mio numero preferito – racconta –, un giorno mi arrivarono per posta le lettere di due numerologhe che mi volevano far sapere che io ero “un 7 che cammina”. Così mi sono un po’ documentato e i motivi sarebbero questi: il mio nome Luciano è di 7 lettere, come pure il cognome; san Luciano è il 7 gennaio, le mie iniziali sono due L che rovesciate sono due 7, il mio primo concerto fu nel 1987, il mio primo stadio nel 1997, la mia traccia più popolare in Buon compleanno Elvis è la numero 7 cioè Certe notti ». Notti che a Ligabue mancano urgentemente sono quelle dei concerti, di cui questo disco è una sorta di ideale e freudiana sostituzione. Frutto di un lockdown sonoro durante il quale, potendo soltanto idealizzare l’ebbrezza del live, ha riaperto cassetti chiusi da tempo, ripreso in mano vecchi demo, embrioni di canzoni e spunti di melodie, smontandoli, riscrivendoli e ripensandoli.
Il risultato è un album di 7 inediti (tra cui il primo vero duetto della sua carriera, con Elisa: Volente o nolente), dal titolo 7, presente anche nel cofanetto 77+7 (entrambi i lavori escono il 4 dicembre per Warner Music Italy), che raccoglie i 77 singoli usciti nella sua trentennale carriera ovvero uno ogni 5 mesi. L’album segna anche la ritrovata collaborazione tra Ligabue e Fabrizio Barbacci: insieme hanno prodotto il lavoro e rimasterizzato quasi tutti i più celebri brani di una intera carriera. Dominata dalle 7 note, la carriera musicale del Liga ha occupato la metà esatta della sua vita. Ma sarebbe troppo stucchevole e semplicistico giocare al lotto ballando sul mondo del Liga, che alle apparenti regolarità del suo cantautorale rock alterna da sempre, anche nei film e nei libri, le più stimolanti e interrogative spigolature.
Ligabue, cosa c’è stato di nuovo in questa sua sosta forzata?
Se non puoi guardare avanti, guardi indietro, così per la prima volta mi sono soffermato sul passato. Non avevo mai potuto farlo in questi trent’anni, in cui ho pubblicato forse persino troppo. L’essere obbligato a stare chiuso in casa ha favorito la voglia di fare musica in studio, visto che non la potevo fare fuori. Non sono stato capace di fermarmi neanche nell’anno in cui avrei dovuto.
Una ricognizione anche antologica con l’uscita di un voluminoso libro, ricchissimo di immagini...
Il titolo È andata così è un’idea del gior- nalista Massimo Cotto con cui ho realizzato questa biografia che ripercorre la mia carriera. Scrivere il libro, in quel periodo di Covid, è stato un salvagente emotivo per me. Parlo molto della mia storia, ho guardato indietro. Certo, sono grato per questi 30 anni intensi di musica e di successi, ma l’intensità si paga e a volte mi sono perso.
Quando capitò?
Era il 1999, in un mio momento di crisi, dopo Buon compleanno Elvis e il film Radiofreccia avevo meditato di smettere. Poi, fortunatamente, c’è sempre stata una vocina che mi diceva: ma poi come fai? Così, eccomi qua. Ma quello che mi manca è il concerto. Io i dischi li faccio per poi suonarli dal vivo, davanti al pubblico.
Beh, centomila spettatori il prossimo 19 giugno al Campovolo sono già prenotati, per ricominciare...
Per questo si chiamerà “Trent’anni in un (nuovo) giorno” e inaugurerà anche la Rcf Arena di Reggio Emilia. Ma non mi sto affatto preparando, perché sono ancora in fase di estrema frustrazione e rabbia. Sono come una pentola a pressione piena di risentimento. Questa doveva essere una festa meritata, io la meritavo e anche chiunque aveva preso il biglietto. Quel giorno sarà comunque una liberazione da un’oppressione e sarà qualcosa che andrà oltre il concerto. Altro che lo streaming.
È contrario ai concerti a distanza?
Per me fare concerti vuol dire avere davanti il pubblico che ti rimbalza le emozioni. Non riesco a pensare a concerti trasmessi attraverso uno schermo. Certo, in questo momento molti hanno bisogno di tornare a lavorare e se questo può essere un modo, va bene. Ora come ora comunque non sappiamo niente del futuro, bisogna fare i conti con tanti aspetti, ma spero che i concerti non saranno ridotti a essere in streaming.
Trent’anni sul palco. Come fu la prima volta?
Ho cominciato questo mestiere per l’emozione proprio di quella prima volta. Era una domenica pomeriggio, avevo davanti a me cento persone, tutti amici miei o dei musicisti con cui stavo suonando, gli Ora Zero. Ma quello che ho provato quella prima volta, ha fatto sì che io dopo cercassi di fare tutto il possibile per replicarlo. Per questo spero, per il bene della musica, che il futuro non siano i concerti in streaming, perché verrebbe meno l’elemento fondamentale della presenza umana. Ed è un’esperienza che non è paragonabile a nessun’altra, quella in cui più ci si lascia andare.
Venendo al nuovo disco di inediti, com’è nato questo primo duetto?
Quindici anni fa scrissi Gli ostacoli del cuore e per la prima volta mi venne l’idea di non cantare io stesso la canzone che stavo scrivevo, ma di farla cantare a qualcun altro. Così chiamai Elisa. Le dissi: sappi che sono un permaloso, ma non tanto da non capire le ragioni degli altri, quindi non ti preoccupare se non ti va di cantarla. Poi in quell’occasione registrammo anche un demo ed è appunto Volente o nolente. La scorsa primavera ho ritrovato nel cassetto questa canzone e l’ho montata intorno alla sua voce.
In un periodo asfittico come questo da dove si può trarre rinnovata creatività artistica?
Credo che la creatività sia legata agli stati d’animo che uno prova. In questa fase, tanti stiamo provando tanti stati d’amino diversi, che vanno dalla preoccupazione alla paura vera e propria allo scotto psicologico che tutti stiamo pagando, il peso del quale capiremo solo quando saremo fuori. Ma per contrasto, la reazione ti può far muovere con un sentimento di speranza e quello lì è il mio modo, ho sempre fatto così.
Abbiamo visto anche durante il primo lockdown che le canzoni possono avere una importante funzione...
Sì, ma non credo che le canzoni possano risolvere la vita delle persone, semmai possono portare conforto, calore e tenere compagnia. Io spero che queste nuove canzoni possano tenere compagnia e portare quel calore che serve alla gente. Trasferire forza alle persone in difficoltà con le mie canzoni mi inorgoglisce. Quando si soffre si condivide.
E a questa umanità che brancola nel buio cosa servirebbe nella prospettiva di un nuovo umanesimo?
Si dovrebbe avere molto ottimismo per credere in un nuovo umanesimo. Ma in ogni caso questa che stiamo vivendo è un’occasione che non dovremmo perdere. Quello che sta succedendo, che per certi aspetti è paragonabile a una guerra, ci ha costretti a fermarci e sarebbe un’occasione per ripensare a un bel po’ di cose. Da tutta questa negatività dovremmo cercare di trarre qualcosa di positivo. Ma bisogna essere molto ottimisti per pensarlo.
Lei lo è?
La tragedia che stiamo vivendo e pagando porta a una nuova possibilità. Credo che sia il momento per dire come si può godere di tutti gli aspetti dell’evoluzione del mondo. Ma i modi hanno a che fare con la nostra capacità di vedere le cose, di accorgersi delle cose. Non sempre lo facciamo perchè andiamo a testa bassa. Ma la gioia, la felicità la viviamo quando siamo presenti a noi stessi. Io ho bisogno di stare il più possibile sul presente che sto vivendo. Anche in solitudine, a volte.