giovedì 25 gennaio 2024
Per Mottinelli solo un lavoro di integrazione tra ricostruzione storica e ricordo potrà proteggere quanto successo dal sensazionalismo e dal negazionismo
Auschwitz oggi

Auschwitz oggi - Erica Magugliani/unsplash

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Chissà se oggi Liliana Segre incontrerebbe ancora Chiara Ferragni. Nella primavera del 2022 l’influencer si recò nella sua abitazione e volle poi visitare il memoriale della Shoah a Milano, dichiarando di essere in «un luogo di cui non conoscevo nulla» (sic!). La senatrice a vita disse: «La nostra è stata una visita semplice, da nonna a nipote, un incontro tra generazioni, ma anche un passaggio di testimone». Anche allora ci fu una piccola polemica, ma tutto sommato non ebbe tutti i torti su queste pagine Gigio Rancilio a scrivere che un messaggio positivo come quello del fare memoria, proprio per arrivare ai giovani, non dovesse rinunciare a prescindere dalla forza dei social.

L’episodio è rievocato da Enrico Mottinelli nel suo libro Auschwitz e il futuro della memoria, appena edito da Mimesis (pagine 232, euro 18,00), in cui il saggista, autore di vari studi sulla Shoah, fra cui Auschwitz. Storia e memorie scritto con Frediano Sessi (Marsilio, pagine 608, euro 30,00), prende di petto una questione cruciale: cosa avverrà della memoria della dello sterminio nazista degli ebrei quando non saranno più in vita i sopravvissuti? Il posto dei testimoni sarà preso dagli storici o dai follower? Mottinelli, che dichiara di ispirarsi in particolare al lavoro di Annette Wieviorka L’ère du témoin, pubblicato in Francia nel 1998 e in Italia uscito l’anno dopo per i tipi di Cortina editore, non ha dubbi: quella che ci aspetta sarà l’era del credente, di colui che ha fede senza dubbi in quanto avvenuto e vuole tramandare a tutti il significato dell’immane tragedia avvenuta.

Un processo simile a quanto accaduto all’inizio del cristianesimo, dopo la scomparsa dei testimoni diretti della predicazione di Gesù: «La generazione che segue quella del testimone che ha assunto i tratti del profeta non può che essere una generazione di credenti. Si tratta di coloro che pur non avendo visto aderiscono alla parola udita, credono, e si fanno discepoli della parola a loro affidata. Ci si sta riferendo in particolare ai giovani, ormai la terza generazione, coloro che hanno conosciuto la Shoah ascoltando la viva voce dei testimoni, i “figli” di quel “dovere della memoria” che li ha portati con treni organizzati fino ai campi-museo».

Il rapporto fra memoria e storia è indagato nel volume con grande scrupolo e acutezza. Mottinelli non se la prende certo con i testimoni, in Italia rappresentati da Edith Bruck oltre che dalla Segre, ma con il pericolo che soprattutto dopo l’istituzionalizzazione della Giornata della Memoria, ogni 27 gennaio, le loro figure vengano monumentalizzate, ridotte a star dei media che vengono interpellate su qualsiasi argomento. Con il rischio della banalizzazione, esattamente come accade spesso nel mese di gennaio di ogni anno, allorché si assiste al profluvio di iniziative, film e libri: «Ciò che emerge è la progressiva pervasività delle semplificazioni sulla Shoah. (…) Anche la figura dei sopravvissuti-testimoni viene travolta da questa onda. Con il trascorrere del tempo la loro presenza viene sempre più amplificata ed enfatizzata, e per non scemare nell’assuefazione, intorno a loro viene creata una sorta di aura sacrale».

Il fenomeno della sostituzione della memoria alla storia avvenne anche qualche decennio fa, in occasione dell’uscita della serie tv Holocaust nel 1978, che certamente contribuì a formare un’opinione pubblica più vasta e consapevole dello sterminio degli ebrei, una memoria collettiva della Shoah che aveva preso il via con le prime testimonianze scritte e orali delle vittime e con il processo ad Eichmann nel 1961. Lo scrittore Elie Wiesel così era intervenuto nella polemica: «L’Olocausto? L’evento finale, il mistero ultimo che non si potrà mai comprendere né trasmettere. Solo quelli che erano lì sanno cosa fosse. Gli altri non lo sapranno mai». Il filosofo Gunther Anders invece valutò positivamente le reazioni del pubblico tedesco: oltre 20 milioni furono incollati davanti alla tv, talmente impressionati come se per la prima volta avessero appreso di quanto avvenuto nei lager nazisti.

Ed era effettivamente così: il processo ad Eichmann di Gerusalemme, o quelli di Francoforte contro vari boia nazisti, tenutisi begli anni Sessanta, non avevano suscitato un tale clamore. Riferendosi a questa come ad altri casi di trasposizione cinematografica o letteraria della Shoah, come Bastardi senza gloria di Tarantino, la storica Anna Foa da parte sua ha parlato di voyeurismo: «Tutto viene macinato nel mortaio dei media, e la zona grigia, che per Primo Levi era qualcosa di molto specifico, si annega in un Male indistinto». Proprio l’autore di Se questo è un uomo non aveva disprezzato del tutto Holocaust, soprattutto pensando al coinvolgimento degli spettatori, anche se aveva giudicato «insufficiente, o inadeguato, lo spessore storico della vicenda».

Al di là di tutte queste polemiche, che spesso riguardano soprattutto scrittori e intellettuali, la questione di come tramandare la memoria resta aperta. Per Mottinelli si tratta di superare la divaricazione fra storia e memoria: «Non si tratta di tracciare i confini di due schieramenti contrapposti, anche perché contrapposti in realtà non lo sono affatto, anzi, a voler guardare si integrerebbero e si alimenterebbero a vicenda». La cosiddetta “era del credente” infatti, accogliendo l’eredità della memoria dei sopravvissuti, potrebbe «imboccare una strada più emotiva che critica». Invece, occorre ancor più dopo la scomparsa dei sopravvissuti «un lavoro di integrazione tra ricostruzione storica e memoria». Per evitare di cadere nel sensazionalismo e di lasciare che il negazionismo possa trovare nuovi pericolosi agganci.

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